Aiuti umanitari e zona cuscinetto. La strategia di Israele in Siria
Secondo il Wsj, Gerusalemme sostiene gruppi contro il regime di Assad. L’escalation degli altri paesi coinvolti, dopo l'abbattimento del jet siriano da parte dell'America
Milano. Cibo, medicine, carburante, ma anche soldi per pagare i salari delle truppe e le munizioni direttamente ai ribelli siriani oltre il confine. Per anni, Israele avrebbe rifornito in segreto gruppi armati che combattono contro il regime siriano di Bashar el Assad e che agiscono lungo quella linea di frontiera delle colline del Golan tra Israele e la Siria. Lo rivela il Wall Street Journal, che riporta le interviste ad alcuni combattenti e comandanti di forze ribelli siriane.
“E’ noto che Israele ha interesse in quello che avviene dall’altra parte del confine – spiega al Foglio il generale in pensione Gershon HaCohen, che ha servito per quarantadue anni nell’Idf, l’esercito israeliano, al comando di truppe sui fronti egiziano e siriano – E’ come con la dottrina Monroe per gli Stati Uniti: gli americani avevano l’obbligo di prendersi cura di ciò che accadeva in America latina. Così, Israele deve fare attenzione a quello che accade lungo il suo confine: si tratta di una strategia classica negli affari internazionali”. HaCohen ricorda come l’assistenza da parte di Israele oltre confine sia però quella umanitaria: cibo, medicine ai civili. Israele – che dall’inizio del conflitto nel 2011 dichiara di non voler prendere posizione in questa guerra – non ha mai nascosto di aver curato oltre tremila siriani, tra uomini armati e civili, nei propri ospedali nel nord del paese, e di far passar oltre la frontiera regolarmente aiuti umanitari.
L’Idf non ha risposto alle domande del Wall Street Journal, che chiedeva conferma di quanto appreso da alcuni comandanti del gruppo Fursan al-Joulan. “Israele ci sostiene in modo eroico”, ha detto al giornale americano Moatasem al Golani, portavoce del gruppo armato che agisce oltre il confine. “Non saremmo sopravvissuti senza”. Un altro combattente parla di almeno cinquemila dollari al mese che arrivano alle sue truppe, non legate all’Esercito siriano libero sostenuto dall’occidente.
L’obiettivo strategico di Israele sarebbe quello di creare una zona cuscinetto “amichevole” tra sé e la Siria e l’Iraq in guerra, di allontanare il più possibile dal proprio confine quelle milizie armate iraniane e pro iraniane che combattono in sostegno del regime di Bashar el-Assad. Israele è più volte intervenuto nel conflitto con bombardamenti mirati – mai in realtà rivendicati – contro convogli di armi in movimento in Iraq e Siria e presumibilmente diretti contro i depositi di Hezbollah, il rivale sciita libanese con cui ha combattuto una feroce guerra lungo il confine nord nel 2006. L’esercito israeliano vuole evitare che le milizie libanesi, con il rafforzarsi della loro presenza tra Iraq e Siria, ottengano attraverso la continuità territoriale un flusso costante di armamenti, e allo stesso tempo vigilia affinché lungo la frontiera siriana non abbiano la meglio movimenti legati a Teheran. “Israele non vuole una vera e propria zona cuscinetto come accaduto in Libano nella guerra civile, prima del ritiro israeliano del 2000 – spiega l’ex generale HaCohen – l’esercito infatti non è interessato come allora a intervenire in un paese straniero: sarebbe troppo complicato”.
Benché non confermata da fonti militari israeliane, ma non smentita – l’Idf ha risposto al Wall Street Journal che Israele “è impegnato a mettere in sicurezza le proprie frontiere e prevenire il radicarsi di cellule terroristiche e forze ostili… oltre al fornire aiuti umanitari ai siriani che vivono nell’area” – la rivelazione del quotidiano americano racconta un conflitto in cui il coinvolgimento di attori regionali e forze straniere è sempre maggiore. Il generale Ramazan Sharif, delle Guardie Rivoluzionarie iraniane che gestiscono il programma missilistico di Teheran, ha detto che il lancio di missili balistici domenica contro postazioni dello Stato Islamico in Siria è anche un messaggio ai sauditi e agli Stati Uniti. Con 700 chilometri di gittata, i sei missili Zolfaghar lanciati possono colpire basi americane in Qatar, Emirati arabi, Bahrein, e anche la capitale saudita Riad. L’attacco missilistico, il primo dell’Iran al di fuori dei suoi confini in 15 anni, arriva in risposta all’attentato rivendicato dallo Stato islamico che all’ inizio del mese a Teheran ha ucciso 18 persone. Fin da subito, però, la Repubblica islamica d’Iran ha dichiarato come gli assalitori fossero “affiliati ai wahabiti”, la corrente ultra conservatrice di islam praticata in Arabia Saudita. Teheran si è praticamente fermato a poca distanza dall’accusare il regno dei Saud d’essere complice dell’attacco, mentre la monarchia da parte sua, assieme agli Emirati arabi, ha scatenato una crisi contro il piccolo emirato del Qatar, e con buone relazione con l'Iran – accusato a sua volta di sostenere forze estremiste e gruppi terroristici.
Nelle stesse ore del lancio di missili iraniano, e per la prima volta dal coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto in Iraq e Siria, l’America ha abbattuto un caccia delle forze del regime di Damasco. Questo, come ricorda Time Magazine, solleva la possibilità di scontri diretti tra truppe americane ed esercito siriano, dando una svolta cruciale al conflitto. Finora infatti, l’America aveva appoggiato con la coalizione internazionale gruppi armati che combattono contro gli Assad, ma non aveva mai ingaggiato uno scontro diretto. Le tensioni e questa nuova direzione hanno la loro origine nel bombardamento ordinato il 6 aprile dal presidente Donald Trump contro una base aerea siriana, avvenuto in seguito alla notizia di una attacco chimico da parte del regime contro civili. L’abbattimento di un jet siriano non resta affare confinato agli equilibri tra Washington e Damasco. Mosca, sul fronte opposto rispetto agli Stati Uniti in questo conflitto, ha fatto sapere che considererà “un obiettivo” ogni velivolo della coalizione internazionale a guida americana nello spazio aereo a ovest del fiume Eufrate, in Siria.