I migranti e il controllo
Due priorità: riformare Dublino e responsabilizzare i governi africani
Al vertice di Tallinn dei ministri dell’Interno europei la nota frattura tra l’Italia e l’Europa sulla questione di aprire altri porti europei ai migranti in arrivo si è ripetuta uguale a se stessa. Non ci si aspettava nulla di molto diverso, al momento le regole prevedono che su questa rotta l’Italia sia paese d’approdo e nessun’altra nazione ha interesse né volontà di cambiarle, nonostante la richiesta del ministro Minniti. Per modificare davvero questo approccio si deve riformare il trattato di Dublino e questo dovrebbe essere l’obiettivo primario del nostro governo: la Germania è d’accordo sulla riforma, la Francia è da sempre estremamente refrattaria e ambigua, sarebbe anche un buon momento per testare il neoeuropeismo che ci ha salvati dal populismo disfattista ma ora ha bisogno di assumere una dimensione di concretezza.
Sull’altro fronte della crisi dei migranti, il controllo della frontiera sud dell’Europa, l’Italia sta ottenendo invece già da ora attenzione e sostegno: come ha detto il ministro della Difesa al Foglio, richiedere “il blocco navale” è come fare un atto di guerra, ma il controllo, quello sì, è una priorità. E il controllo si ottiene investendo sulla Guardia costiera libica, sullo sviluppo economico dei paesi africani, sul coinvolgimento delle istituzioni internazionali che si intestano la guida e la responsabilità dei campi profughi che possono essere creati sulla costa libica. Su questo approccio, il controllo congiunto, responsabilizzando i governi africani, l’Europa si è mostrata molto più attiva e, strano a dirsi, solidale. Ma responsabilizzare i governi africani non è solo un passaggio politico ma un passaggio culturale che dipende anche dall’Italia. Se la politica resterà quella dell’incentivare le partenze, non si andrà lontano. Se la politica diventerà quella di governare i flussi, qualcosa si otterrà.
Dalle piazze ai palazzi