I nervi saldi sul caso Regeni
Il ritorno del nostro ambasciatore è positivo. Ma ora l’Egitto usi realpolitik
Il fatto che l’Italia manderà un nuovo ambasciatore al Cairo non è la fine del caso Regeni, il ricercatore torturato e assassinato dai servizi di sicurezza egiziani diciotto mesi fa. Questa equivalenza “se l’ambasciatore italiano è al Cairo allora c’è un insabbiamento” è tutta da dimostrare, e sarà tutta da dimostrare nei prossimi mesi. Il procuratore della Repubblica di Roma, che è indipendente dal governo italiano, dice che ora i magistrati egiziani stanno collaborando. Il premier Paolo Gentiloni, a cui non si può negare una conoscenza quieta del dossier nord Africa, retaggio di quando era ministro degli Esteri e negoziava per ricomporre le fazioni libiche (e l’Egitto c’entra molto), si è esposto di persona e ha telefonato alla famiglia Regeni per rassicurarla. Insomma, prima di dire che la verità sulla fine atroce del ricercatore italiano è già stata sacrificata sull’altare della realpolitik vale la pena attendere e vedere cosa succede.
In realtà, la presenza di un nostro diplomatico di alto livello in Egitto potrebbe essere più un vantaggio nella ricerca dei responsabili che uno svantaggio, perché va bene il simbolismo della sede vacante, ma è chiaro che ora tutta la vicenda è anche, forse soprattutto, una questione di trattative confidenziali, prima per convincere il governo egiziano ad ammettere quello che ormai tutti sanno – vedi il reportage definitivo pubblicato dal New York Times due giorni fa – ovvero che qualcuno dei loro, nel settore servizi di sicurezza, ha commesso un delitto, e poi per arrivare alla verità finale e per trovare i responsabili. Un ambasciatore italiano al Cairo può essere l’arma migliore per battere lo stratagemma adottato dagli egiziani fin dall’inizio: il temporeggiamento, il lasciare che il tempo sbiadisca la vicenda e confonda le idee. Vale la pena notare anche che gli egiziani stavano già facendo melina ad ambasciata vuota e questo svuota un po’ di senso l’idea che il ritiro dell’ambasciatore da parte dell’Italia fosse stata una misura efficace per ottenere la verità. Inoltre, le indagini presuppongono un viavai di nostri professionisti al Cairo, un diplomatico italiano accreditato e di alto livello può svolgere un ruolo di tutela e diminuire il rischio di intoppi.
In questo modo, con il ritorno di un ambasciatore al Cairo, l’Italia riconosce le necessità dure della politica internazionale (come ha subito rimarcato ieri l’ex ministro degli Esteri egiziano, che ha detto “ora ci sarà più coordinamento tra Egitto e Italia sulla Libia”. E gli ha fatto eco il generale libico Haftar, padrone dell’est del paese e sponsorizzato dagli egiziani, che una settimana fa promettev – improbabili – bombe contro le navi italiane nella rada di Tripoli e che ora – quasi a comando – si rimangia le minacce con mitezza: “Gli italiani sono ospiti, non è possibili bombardarli”). Il Cairo dovrebbe replicare con altrettanta realpolitik alla mossa italiana e riconoscere che da qualche parte nella sua catena di comando c’è un settore in ribellione con gli altri, che ha ucciso deliberatamente un italiano e ne ha fatto ritrovare il corpo per mandare un macabro messaggio. E dopo questo riconoscimento dovrebbe agire di conseguenza. L’Egitto è un grande paese, può andare avanti con un colonnello o con un generale in meno.