Si chiama soft power
Cambridge scopre la censura cinese, ma davvero non ce ne eravamo accorti?
E’ durata meno di una settimana l’adesione della Cambridge University Press, la casa editrice più antica del mondo che fa parte dell’ateneo più famoso del mondo, alla censura cinese. Venerdì scorso aveva annunciato di aver accettato la richiesta del governo di Pechino, che voleva inaccessibili all’interno del paese circa trecento articoli della China Quarterly. Poi sono arrivate le polemiche, anche di autorevoli accademici, che facevano notare come l’autocensura fosse ancora più pericolosa della censura stessa: l’ateneo avrebbe creato un precedente che rischia di minare la libertà d’espressione occidentale. La linea ufficiale cinese, espressa dal Global Times, parla di una “questione di principio”: le istituzioni occidentali possono fare quello che vogliono, se non gli piace come lo facciamo noi, allora ci lasciassero stare. Poi la Cambridge University Press è tornata sui suoi passi, e ieri il Wall Street Journal, con un editoriale non firmato, sottolineava come a forza di adeguarsi agli standard di censura cinesi la libertà accademica prima o poi pagherà un prezzo. Ma ha senso stupirsi per quel che è successo a Cambridge? Sembra piuttosto una reazione un po’ naïve. Sono decenni infatti che la Cina espande la sua sfera di influenza verso l’occidente. Alcune istituzioni europee hanno sviluppato una vera dipendenza economica nei confronti di società cinesi. Che poi, al momento giusto, chiedono qualcosa in cambio. E’ il soft power, bellezza.
I conservatori inglesi