In Myanmar c'è una parola tabù: islamismo
Gli scontri tra Forze armate e rohingya e la visita pastorale di Francesco
La situazione nello stato Rakhine – o meglio, in quella lingua di terra che si insinua tra Myanmar e Bangladesh – è esplosiva già da mesi. Nelle ultime settimane, però, tutto è peggiorato. Ci sono state decine di morti negli scontri tra i miliziani rohingya e le Forze armate del Myanmar. Secondo il governo della leader de facto Aung San Suu Kyi, soltanto venerdì scorso almeno venti stazioni di polizia della zona sarebbero state attaccate più volte con imboscate e tecniche militari, e i ribelli sarebbero organizzati in gruppi con armi ed esplosivi fatti in casa. Il governo di Yangon ha definito gli attacchi “terroristici”, e la reazione “inevitabile” delle Forze armate è stata piuttosto violenta.
Conosciamo ormai le condizioni di vita dei musulmani di etnia rohingya: sono una minoranza senza patria, che vive in estrema povertà in una zona di confine, e non trova pace né in Bangladesh né in Myanmar. Ma ormai da tempo anche l’estremismo islamico avrebbe attecchito nella zona, con il rischio di un aumento di tensione e attacchi. Ed è una situazione complicata anche dal fatto che il governo del Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi nega agli osservatori dell’Onu il visto per controllare cosa succeda davvero nell’area, motivo per cui la Signora è ormai criticata esplicitamente anche da chi l’aveva santificata in passato.
Domenica scorsa, durante l’Angelus, Papa Francesco ha pregato anche per i rohingya, un giorno prima che la segreteria di stato vaticana ufficializzasse il suo viaggio tra Myanmar e Bangladesh alla fine di novembre. Sarà un momento di riflessione e preghiera per un popolo apolide e senza diritti, ma anche per chi è morto per mano dell’estremismo islamico. Per non ridurre questa storia a un solo punto di vista miope.