Calma con l'arrembaggio populista
Le elezioni in Germania e Austria hanno dimostrato che l'Europa non è tornata a essere minacciata da chi cavalca lo scontento popolare per distruggere il progetto di integrazione. Appunti su un decennio in cui si è imparato a correre il rischio (europeista)
A leggere i giornali e i commenti di molti editorialisti, la crisi esistenziale dell’Europa, che preannuncia il declino definitivo della democrazia liberale occidentale, è di nuovo qui. Ma, a ben guardare anche i risultati delle elezioni in Germania e Austria, si capisce che l’Unione europea non è tornata a essere minacciata da forze populiste pronte a cavalcare l’onda di un enorme scontento popolare per perseguire la distruzione del progetto di integrazione. Al contrario. I capi di stato e di governo si riuniranno domani e venerdì a Bruxelles per un vertice che dovrebbe tracciare la road map del rilancio dell’Europa, perseguendo un doppio binario: continuare a cercare risultati concreti per i cittadini su questioni importanti per la loro quotidianità (migrazioni, sicurezza, economia, digitale) e affrontare seriamente la riforma delle istituzioni Ue a partire dalla zona euro. Per un nuovo big bang europeista serviranno tempo, volontà politica e spirito di compromesso. La strada sarà ancora piena di ostacoli politici (come i governi nazionalisti in Polonia e Ungheria) ed elettorali (il più grave rischio percepito è l’Italia nella primavera del prossimo anno). Ma – come ha spiegato al Foglio un alto funzionario europeo – i leader oggi sono “meno avversi al rischio” e pronti a prendere di petto “questioni sensibili e che dividono”. Poco meno di un anno fa, nella prima conversazione con un leader dell’Ue, Donald Trump chiese a Donald Tusk: dopo la Brexit “state facendo un lavoro bellissimo in Europa, ma chi sarà il prossimo?”. “Oggi la domanda è qual è la prossima cosa da fare”, rivela l’alto funzionario. Un anno fa, l’Ue si preparava a un presidente della Fpö in Austria, a una vittoria di Geert Wilders in Olanda, alla possibilità di Marine Le Pen all’Eliseo in Francia e al 25 per cento per Alternative für Deutschland in Germania. Oggi invece l’Ue prepara il suo futuro e da qui occorre partire per valutare la vera portata della cosiddetta “minaccia populista”.
Un altro utile strumento per soppesare i populisti sono le serie storiche dei dati elettorali. Vedere una domenica sera la Fpö al 26 per cento in Austria può spaventare, ma è molto meno del 35 per cento che il suo candidato Norbert Hofer aveva ottenuto al primo turno delle presidenziali del 2016 o del 30 per cento che tre diversi partiti populisti di estrema destra avevano ottenuto alle legislative del 2013. In Germania Angela Merkel è uscita indebolita dal voto del 24 settembre e faticherà a formare una coalizione Giamaica, ma è sopravvissuta malgrado (quasi) tutti l’avessero data per spacciata nell’inverno 2015-2016 a causa di quella che appariva come un’inarrestabile progressione dell’AfD. Nessuno nega la profonda trasformazione del quadro politico in Europa e più in generale in occidente. Le forze antisistema (di destra come di sinistra) sono qui per restare, hanno aumentato la frammentazione e hanno reso più complicata l’arte di formare coalizioni. Ma, quando arrivano o si avvicinano al potere, i populisti sono costretti a fare i conti con la realtà, perdendo gran parte del loro appeal. Vale per Alexis Tsipras in Grecia, il cui partito si è trasformato in una versione gruppettara del Pasok ed è almeno dieci punti dietro ai conservatori di Nuova democrazia. Vale per Podemos in Spagna, le cui intenzioni di voto stanno precipitando per la condiscendenza con cui tratta i populisti dell’indipendentismo catalano. Vale per i brexiteers del Regno Unito, che nel caos Brexit sparano contro Philip Hammond invece che contro l’odiata Bruxelles. Vale per la Fpö in Austria, la cui esperienza al governo tra il 2000 e il 2006 portò a una scissione interna e allo svuotamento del bacino elettorale. Sebastian Kurz e Heinz-Christian Strache ripeteranno quell’esperienza? E’ possibile nel paese dove il ministro della Difesa, il socialdemocratico Hans Peter Doskozil, invia i soldati al Brennero contro i migranti e predica i benefici dell’alleanza di governo tra l’Spö e l’Fpö nella regione del Burgenland. Ma, più che per l’Ue, sarà un problema per l’europeista Kurz.