Gerusalemme, una capitale per la pace
Spostare l'ambasciata da Tel Aviv, secondo Trump, è un rilancio del dialogo tra israeliani e palestinesi
Milano. Il presidente americano, Donald Trump, ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e ha avviato il processo per trasferire lì l’ambasciata statunitense che ora, come tutte le altre sedi diplomatiche, è a Tel Aviv e che quando sarà completa sarà “un formidabile tributo alla pace”. “Trump capovolge settant’anni di politica estera americana”, scrive oggi il New York Times, esagerando. Una legge del Congresso del 1995, venuta dopo il Trattato di Oslo del 1993, riconosceva Gerusalemme capitale e impegnava l’America a spostare la sede diplomatica entro il maggio del 1999, pena il decurtamento di una parte consistente di fondi destinati al dipartimento di stato. L’Amministrazione Clinton pensava che questa sanzione fosse eccessiva e che la questione della capitale avrebbe rallentato i negoziati in corso tra israeliani e palestinesi e per questo, dopo molte discussioni e preoccupazioni e la minaccia di veto, fu introdotto un “waiver”, un’esenzione, che ogni presidente americano da allora firma ogni sei mesi, per rimandare il trasferimento senza incorrere nella misura sanzionatoria contro il dipartimento di stato. Trump dice che negli ultimi vent’anni nessun presidente ha avuto il coraggio di dare seguito alla legge, poiché era convinzione comune che una tale decisione avrebbe messo in pericolo il processo di pace. Ma la pace non c’è oggi, il processo di pace pure è collassato, e con il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e il trasferimento dell’ambasciata Trump vuole dare una nuova chance alla pace. L’Amministrazione americana resta impegnata – Trump l’ha sottolineato con il suo consueto gesto della mano a scandire le parole – nel processo di pace in corso, è favorevole alla soluzione dei due stati, e conta di arrivare a “un great deal” per entrambi, israeliani e palestinesi, che sono i protagonisti del processo.
L’obiettivo di questa Amministrazione, al netto delle improvvisazioni, dell’imprevedibilità e dei tweet notturni, è rassicurare Israele dopo i difficili anni obamiani (che pure loro non cambiarono nulla di fatto ma cambiarono, questo sì, la percezione dell’alleanza stretta e imprescindibile tra Israele e America, con i tanti retroscena maliziosi sull’inconciliabilità antropologica tra Obama e il premier israeliano Netanyahu) e ripartire poi da lì per fare pressioni su Israele per ottenere quelle concessioni senza le quali uno stato palestinese non ha chance di nascere. Allo stesso modo, la decisione di Trump ha a che fare con il lavoro diplomatico messo in piedi da Washington – dal genero in chief, Jared Kushner, in particolare – con l’Arabia Saudita, in chiave anti iraniana. Anche questo obiettivo dell’Amministrazione, al netto della suddetta nuvola di confusione che non si può tralasciare troppo essendo decisiva, è chiaro: contenere l’Iran, con la revisione dell’accordo sul nucleare e con accordi a livello regionale. Alla luce di questo lavoro diplomatico con i sauditi, il tempismo della decisione trumpiana potrebbe non essere così sbagliato: la calma almeno apparente di Riad potrebbe contenere la reazione di collera della piazza araba. Alcuni esperti vedono nella mossa trumpiana di pura realpolitik un’occasione di rilancio di un processo di pace che comunque era già comatoso, in un momento di enorme trasformazione del medio oriente, dove già si sente, e si patisce, l’irrilevanza finora mostrata dagli Stati Uniti.
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