Il silenzio di Trump sulla Libia
Sovranismo vuol dire affrontare i problemi da soli. Vedi Tripoli
Mentre in Libia la milizia che va sotto il nome di Settima Brigata tenta di cacciare il legittimo governo da Tripoli i libici raccontano questa barzelletta: Trump telefona al premier Fayez al Serraj e chiede: “Ma questa milizia della Settima Brigata non è fedele al vostro governo?”, “Questa non so, però le prime sei lo sono”. Nel grande caos dei cartelli di milizie libiche che si contendono il controllo della capitale viene da chiedersi se in questi diciotto mesi di mandato l’Amministrazione Trump non avrebbe potuto dire qualcosa di più netto sulla rivalità che spacca in due la Libia. Si sa che la dottrina trumpiana predica il ritiro dalla politica internazionale e il ripiegamento verso l’America, a meno che non ci siano ragioni decisive per l’intervento. Ma questa assenza di indicazioni dirette – il presidente non ha quasi mai menzionato la Libia da quando si è insediato – ha generato un vuoto che gli attori più violenti nel paese hanno sfruttato a proprio vantaggio. Se Washington non parla mai e lascia tutto in mano ai governi europei, allora – pensano – possiamo fare quello che ci piace. Così, mentre da Sigonella partono droni che uccidono i leader dello Stato islamico (queste operazioni interessano sì all’America, perché meno nemici uguale più sicurezza a lungo termine), la rivalità tra Serraj e Haftar, tra Bengasi e Tripoli, è stata lasciata in un limbo irrisolto. C’è stato l’annuncio dato da Trump di una cabina di regia sulla Libia assieme con “l’amico Ciusepi” Conte, ma la cosa è stata così vaga che non ne è nato alcun effetto deterrenza. Nel mondo sovranista le alleanze sono deboli. Le conseguenze dovremo fronteggiarle noi, anche se siamo piccoli.