Le cavallette sono arrivate anche a Londra
Peggior pil dal 2016 e fuga dal Regno Unito. La Brexit inizia a farsi sentire
La Uk Statistics Authority, l’Istat del Regno unito, ha comunicato un calo del pil di aprile dello 0,4 per cento, la performance peggiore da marzo 2016. Si tratta della diretta conseguenza della Brexit, che i conservatori di Boris Johnson e il Brexit party di Nigel Farage vogliono in versione hard, e di un calo della produzione manifatturiera mensile del 3,9 per cento; anche questo originato dall’incertezza politica e da un crollo annuo del 24 per cento nel settore Auto. “La Brexit è grande: il dato della manifattura è il peggiore in 17 anni e molto al di sotto di quello registrato con la crisi finanziaria globale” ha tuittato Davide Serra, il finanziere italo-inglese amministratore delegato del fondo Algebris.
Quando si tratta di parlare di Regno Unito, le infaticabili talpe da talk-show dell’Italexit stile Bagnai, Rinaldi & Di Battista continuano a scavare, ovviamente contro i “poteri forti”, ignorando sistematicamente i segnali negativi da oltre Manica. Già le previsioni di primavera dell’Unione europea avevano collocato il Regno Unito al 25esimo posto per crescita nel 2019 tra 28 paesi Ue. Un 1,3 per cento (che certo in Italia sarebbe oro) rispetto al 3,8 dell’europeista Irlanda. Soprattutto un rallentamento ininterrotto dal 2016, anno del referendum, quando il pil segnò l’1,8 per cento rispetto al 2,2 e al 2,9 dei due anni precedenti. Oltre al crollo dell’Auto con Nissan, Ford e Honda che hanno annunciato la chiusura dei loro impianti in Gran Bretagna, nei soli due primi mesi del 2019 avrebbero lasciato Londra almeno 65 miliardi di sterline di fondi e depositi finanziari, mentre gli asset totali che abbandonerebbero il Regno Unito nella prospettiva di una hard Brexit sono stimati in mille miliardi. L’inflazione è aumentata nel 2018 del 2,7 per cento, non per consumi ma per il deprezzamento della sterlina del 12,6 per cento sull’euro e del 6,3 sul dollaro. Il che, per un paese in deficit commerciale, che dovrà saldare all’Ue un conto oscillante tra i 40 e i 100 miliardi di euro entro il 2020 a seconda di una soft o hard Brexit, secondo le proiezioni del National Institute of Economic and Social Research significa contrazioni del pil del 5,5 per cento annuo a medio termine, con ripercussioni sullo stato sociale. Dunque, per dirla à la Bagnai, facciamo come loro.