Si è chiuso un ciclo in Egitto
La morte dell’ex presidente Morsi non lascia motivi di ottimismo nel paese
Mohammed Morsi, il presidente egiziano eletto nel 2012 e cacciato da Al Sisi nel 2013, è morto lunedì mentre parlava da venticinque minuti davanti ai giudici del tribunale, dal banco degli imputati (era in carcere da sei anni). Morsi era il simbolo del rischio implicito in ogni cambiamento politico nel mondo arabo: se scardini l’autoritarismo, comincia la deriva verso l’islam politico. Non è una deriva obbligata, vedi Tunisia, ma può succedere. I Fratelli musulmani avevano visto nella fine di Mubarak nel 2011 la grande occasione di prevalere e l’avevano colta con efficienza da dominatori, erano riusciti a far eleggere Morsi salvo poi essere sradicati dalla restaurazione guidata dai militari e sponsorizzata dagli stati del Golfo come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.
Il dopo Morsi non è stato quel paradiso che era stato promesso. La restaurazione guidata da Al Sisi prometteva maggiore sicurezza, ma a giudicare dalla mancanza di progressi contro lo Stato islamico sembra che le forze di sicurezza siano più capaci contro i dissidenti democratici che contro i terroristi. Prometteva un’economia migliore, ma non è che le cose vadano meglio in quel settore – anzi. In Italia abbiamo avuto un esempio chiarissimo del fatto che il governo egiziano può essere brutale e sfuggente: l’uccisione non ancora spiegata del ricercatore Giulio Regeni.
Insomma, con la morte di Morsi – ieri 17 giugno, stessa data della sua elezione nel 2012 – prima dell’ex rais Hosni Mubarak si chiude il ciclo egiziano della rivolta popolare seguita dall’ascesa islamista seguita dalla grande correzione operata dai generali, senza grandi motivi di ottimismo. “Egypt’s first democratically elected president”, lo definiva ieri il New York Times nel lanciare la notizia: collassato nella gabbia degli imputati. L’Egitto del dopo 2011 si trova da qualche parte, ancora lontano dalla normalità.