La Cina mette le mani sul cibo. E ora?
Pechino vuole contare di più sui tavoli internazionali, ma con le sue regole
Dopo otto anni di presidenza brasiliana, la Cina si è presa la Fao, l’organizzazione dell’Onu che si occupa dell’alimentazione e dell’agricoltura. Qu Dongyu, viceministro dell’Agricoltura e degli Affari rurali di Pechino, è stato votato direttore generale da 108 dei 194 membri dell’Agenzia Onu, una maggioranza notevole. Ci sono molte considerazioni da fare, su questa nuova politica cinese di uscire dai confini nazionali ed essere sempre più importante nei consessi internazionali.
La prima riguarda la responsabilità: la Cina è la seconda economia del mondo, e soprattutto dopo l’avvio di un progetto strategico globale come quello della Nuova Via della Seta ha capito che non può più seguire la sua tradizionale linea di isolamento rispetto a tutto ciò che avviene nel mondo. Donald Trump alla Casa Bianca sta andando nella direzione opposta, mettendo in discussione il contributo economico americano all’Onu (più di dieci miliardi di dollari all’anno, il maggiore al mondo) e la Cina si fa largo proprio dove l’America si ritira – il paese che prende la presidenza di un’agenzia dell’Onu di solito ne diviene anche il maggior finanziatore, e quindi ha anche più potere nel decidere dove vanno i suoi soldi. Il problema, però, riguarda la mancanza di trasparenza di Pechino in settori chiave perfino per la Fao, come quello della sicurezza alimentare.
E poi c’è il controllo autoritario dei suoi funzionari. Meng Hongwei, ex viceministro della Pubblica sicurezza cinese, era stato nominato capo dell’Interpol nel 2016. Poi era sparito improvvisamente nel settembre del 2018, e più di dieci giorni dopo, su richiesta dell’Interpol, la Cina aveva fatto sapere che Meng era stato fermato per corruzione. La scorsa settimana è apparso per la prima volta in pubblico e ha confessato di essere un corrotto, ma è noto che il sistema giudiziario cinese non risponde alle stesse regole di terzietà di uno stato di diritto. Il caso Meng è un po’ il simbolo di questo nuovo corso dei rapporti internazionali, e della differenza che c’è quando si parla di “strapotere” americano e di quello di un paese con cui non condividiamo interessi strategici né valori democratici.