Ambasciata quasi colpita a Tripoli
La nostra rilevanza in Libia è zero, i rischi invece sono molto alti
Venerdì notte l’artiglieria del generale Haftar ha colpito a poca distanza dall’ambasciata italiana a Tripoli e ha ucciso due passanti. La Farnesina ha risposto con una nota di condanna, l’Italia è rimasta una delle poche nazioni a tenere ancora aperta una sede diplomatica nella capitale libica, ma è chiaro che tutto il personale è a rischio. Gli ordigni sparati dalle milizie di Haftar sulla città non sono precisi, basta poco a centrare questo o quell’edificio. Ancora non ci rendiamo bene conto di cosa sia accaduto, ma immaginate la scena politica italiana – che ogni giorno rifiuta in modo deliberato di interessarsi a cosa succede in Libia, dove accadono cose che ci riguardano molto – se un razzo o un proiettile d’artiglieria cadesse sull’ambasciata. Saprebbe dire qualcosa di sensato? Lo stesso discorso vale per le centinaia di soldati italiani che presidiano l’ospedale militare di Misurata, che si trova dentro al perimetro dell’aeroporto e quindi è sfiorato spesso dai bombardamenti delle forze di Haftar.
E le cose stanno per peggiorare, perché gli Emirati Arabi Uniti, sponsor impuniti di Haftar, potrebbero presto usare in Libia alcuni bombardieri – li hanno già spostati nella base egiziana di Sidi Barrani, vicino al confine. La presenza degli italiani a Tripoli e Misurata in teoria serviva come freno allo sfacelo della guerra civile, in pratica Haftar – che quando viene da noi è ricevuto con il tappeto rosso – continua ad aggredire senza mettersi alcun limite. La nostra rilevanza nel paese africano è diventata zero e i primi a farne le spese sono gli italiani che sono rimasti laggiù a fare il loro mestiere. Se imboccassimo una direzione purchessia, se prendessimo posizione, se ci dichiarassimo, almeno la presenza diplomatica e militare avrebbe un senso e con essa tutti i rischi collegati. Invece abbiamo preso una posizione attendista, stiamo affacciati alla finestra a guardare. Che è pure un’attività piacevole da farsi a Roma. A Tripoli un po’ meno.
Cosa c'è in gioco