Gli intransigenti sul Recovery fund
Ungheresi e cechi ostili per ragioni diverse. Una dovrebbe interessarci
L’opposizione al Recovery fund proposto dalla Commissione di Ursula von der Leyen doveva venire dai quattro paesi “frugali” e, invece, le critiche più intransigenti al piano da 750 miliardi per far ripartire l’economia dell’Unione europea stanno arrivando da alcuni paesi dell’est, che rischiano di complicare un negoziato già difficile. Il premier dell’Ungheria, Viktor Orbán, ha definito il Recovery fund come “assurdo” perché destinato ad aiutare paesi molto più ricchi del suo. Il suo omologo della Repubblica ceca, Andrej Babis, ha detto che la proposta è “inammissibile” perché i fondi non devono andare a stati membri già gravemente indebitati. I due leader del gruppo di Visegrád sono di stampo diverso, ma hanno lo stesso problema: i loro paesi rischiano di essere penalizzati nella redistribuzione dei fondi. L’ungherese è un nazionalista populista. Il ceco è un miliardario imprenditore. Non è un caso se offrono argomentazioni divergenti. “Vogliono prendere questo prestito per 30 anni e così perfino i nostri nipoti potrebbero pagare. Dobbiamo pensarci attentamente se lo vogliamo o no”, ha detto Orbán. Il ragionamento di Babis è più simile a quello di olandesi e austriaci sulla condizionalità: i paesi beneficiari del Recovery fund “dovrebbero innanzitutto garantire che la loro situazione migliorerà in futuro”. Le minacce di Orbán sono poco credibili: nel gran bazar del negoziato su Recovery fund e il bilancio 2021-2027 lui ha solo da rimetterci in caso di disaccordo, dato che l’Ungheria riceve il 4 per cento del pil dai fondi Ue. Ma le argomentazioni di Babis dovrebbero mettere in allerta chi in Italia spera di usare i 172 miliardi dell’Ue per fare vecchie politiche: l’impegno a conti pubblici sani e riforme strutturali è indispensabile per ottenere un accordo sul Recovery fund.