Bene gli sminatori italiani in Libia
La diplomazia non ha funzionato, recuperiamo con un’operazione utilissima
L’Italia assisterà il governo libico di Tripoli nella difficile opera di sminamento delle aree abbandonate dai miliziani di Haftar. Con una mossa che dovrebbe escludere il generale da ogni futura trattativa, i suoi uomini hanno disseminato di migliaia di trappole esplosive le aree urbane dalle quali si sono ritirati per manifesta inferiorità. Si tratta di un gesto aggressivo diretto contro i civili che dovrebbero tornare a occupare quei quartieri e quelle case ora che la guerra civile si è fermata – e ci sono già almeno trenta morti. Sarebbe bene che l’operazione di sminamento da parte dell’Italia in Libia fosse massiccia per almeno due ragioni. La prima è umanitaria, i tecnici militari sanno come affrontare gli ordigni, i civili e soprattutto i bambini no. Prima le mine lasciate dagli uomini di Haftar saranno neutralizzate e meno persone moriranno. La seconda ragione è che l’Italia ha tentato in questi quattordici mesi di guerra civile una complessa triangolazione fra Tripoli e Bengasi, senza successo. Sono arrivati i turchi e hanno risolto la situazione a colpi di missili (e hanno inflitto una batosta agli sponsor del generale, Emirati, Egitto, Russia e Francia).
In pratica l’Italia che ha contribuito a creare il governo di Serraj è stata poi alla finestra mentre quel governo rischiava di essere spazzato via da un momento all’altro, perché aveva paura di inimicarsi il generale Haftar. Ma poi Haftar ha perso, Tripoli ha vinto e noi in questo momento siamo l’immagine del cattivo alleato, quello che ti lascia nei momenti di difficoltà. Recuperiamo, perché Tripoli è appena al di là del mare e conta moltissimo, è il nostro dossier più importante in politica estera e ne siamo stati estromessi – anzi, ci siamo estromessi da soli. I turchi hanno fatto il lavoro sporco (mercenari, droni, bombardamenti) e si sono assicurati una quota di controllo in Libia, facciamo noi quello pulito e torniamo a essere interlocutori che vanno ascoltati.
L'editoriale dell'elefantino