Quando i Troubles in Irlanda del nord scoppiarono nel 1968 a Londonderry, la sua città natale, John Hume guidò una protesta in difesa dei diritti civili e fu arrestato da Paddy Ashdown che era al servizio della marina reale. Trent’anni più tardi, alla firma degli accordi di pace del Venerdì santo del 1998, Hume era come “un santo laico”, ha scritto il Times, un Nobel per la Pace ma soprattutto un negoziatore, un politico pronto al dialogo, alla pacificazione, al compromesso. “Gli accordi non hanno mai minacciato nessuno”, diceva, e “non sono le terre che devono essere unite, sono le persone”. Hume è morto lunedì a 83 anni, sulle tv britanniche e irlandesi sono passati i filmati e le immagini più famose della sua vita, i sorrisi del Venerdì santo, ma anche la sua espressione sicura quando entrava e usciva dai colloqui con le varie parti, sempre insoddisfatte, loro, e lui sempre così determinato. Tutti dicevano: oggi viviamo nell’Irlanda che sognava Hume, e chissà se è vero, se è questo cui aspirava, certo la pace, quella sì, era la sua priorità, la sintesi del “metodo Hume”. La sua morte ci ha fatto ripensare alla ferocia dei Troubles, a quanto fossero lontani e violenti tra loro gli unionisti e i nazionalisti, quanto fossero profondi la rabbia e il risentimento, quanto dovesse sembrare lunare – elitaria forse, studiata a tavolino da qualche esperto che non sa nulla del mondo vero – la riconciliazione, e chi la portava avanti. Il leader dei socialdemocratici dell’Sdlp diceva: “La politica è l’alternativa alla guerra”, e andava cercando le differenze tra gli uni e gli altri perché soltanto comprendendo le diversità si sarebbe aperta la strada per il compromesso. “Tutti i conflitti riguardano una diversità, la risposta alla diversità è: rispettarla”, diceva Hume e se anche molte immagini della sua vita non erano in bianco e nero, tutta la sua storia è suonata, nel ricordo, lontanissima. Oggi la politica è guerra, e la pace un’arte perduta, dei perdenti forse.
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