A lezione da Lula
Questa è la storia incredibile del giustizialismo brasiliano, ispirato da Mani pulite e condito con l’efferatezza verbale e populista di Jair Bolsonaro e Sergio Moro. Con il finale a sorpresa che ha molto da dire anche a noi
Durante il suo primo viaggio all’estero da presidente, a Davos, Jair Messias Bolsonaro aveva parlato di sé, della sua storia, della sua vittoria e del suo progetto per cambiare il volto del Brasile. L’intenzione era far dimenticare, fuori dai confini, alcune frasi pronunciate prima e durante la campagna elettorale. Pochi esempi: “Ho cinque figli, i primi quattro sono maschi e l’ultima è una femmina, si vede che non ero in forma!”. “Pinochet avrebbe dovuto uccidere più persone”. “Non sarei capace di amare un figlio gay, preferirei che morisse in un incidente piuttosto che si facesse vedere in giro insieme a uno coi baffi”. Pensa di poter convincere l’uditorio che, nonostante tutto, sia lui l’unico capace di modernizzare il Brasile e mettere fine alla corruzione endemica, a suo parere causata esclusivamente dalla vocazione socialista del Partito dei lavoratori, quello di Luiz Inácio Lula da Silva, le cui condanne sono state annullate l’8 marzo. E quello di Dilma Rousseff, deposta da presidente della Repubblica durante il terremoto giudiziario Lava Jato, nonostante non fosse accusata di alcun reato. A Davos Bolsonaro si presenta con il giudice Sergio Moro, suo ministro della Giustizia, è per lui che chiama l’applauso dal palco, lo definisce “colui che ha finalmente sconfitto la corruzione in Brasile”.
L’idillio è durato pochissimo. L’entourage e i figli di Bolsonaro sono stati accusati di corruzione, lui è stato ripreso mentre dice che se la polizia non lo aiuta a proteggere i propri familiari dai magistrati, lui caccia il capo della polizia (lo ha fatto). La Corte suprema decide (con una scelta senza precedenti) di pubblicare il video rubato in cui il presidente pronuncia queste parole e su cui adesso si incardina la richiesta di impeachment nei confronti di Bolsonaro. Il suo ministro dell’Istruzione dice: “Fosse per me schiafferei in galera tutta la Corte suprema”. I sostenitori del presidente sparano piccoli razzi e fuochi d’artificio contro gli uffici della Corte e pubblicano sui social video in cui, pistola alla mano, minacciano di morte i magistrati. Il rapporto tra Bolsonaro e i giudici è importante per capire il presente del leader, ma soprattutto la sua ascesa e la rivoluzione che ha comportato. In questa storia, ci sono talmente tanti insegnamenti che riguardano il rapporto tra politica e magistratura da far sembrare Bolsonaro un personaggio di Esopo o di Fedro e la storia politica recente del Brasile una favola antica che contiene un insegnamento universale.
Non era il più potente tra i suoi colleghi militari, né il più popolare tra i suoi colleghi parlamentari. Godeva di scarsa considerazione tra i compagni di partito. Da dove viene, allora, Jair Bolsonaro? La sua è stata la scalata perfetta di un mediocre della politica. Da buon populista contemporaneo, ha conquistato la presidenza raccontandosi come assolutamente estraneo a un establishment ovviamente corrotto. La sua ascesa è stata possibile perché inserita in una tempesta perfetta. Un grande avvenimento che sconvolge il Brasile minandone la forza, la fiducia all’interno e la credibilità all’estero. Il gigante sudamericano è un paese fragile. La tempesta è l’inchiesta Lava Jato, Mani pulite d’Oltreoceano, che non limita i propri obiettivi alla scoperta di alcuni reati e all’individuazione dei responsabili. Non si muove in modo ordinato, ma torrenziale. Investita da una missione: il grande reset. L’indagine riguarda il meccanismo di corruzione pressoché automatica secondo cui chiunque ottenesse appalti dalle aziende pubbliche brasiliane riconosceva ai partiti una percentuale tra l’1 e il 3 del valore della commessa.
Quando Sergio Moro diventa ministro di Bolsonaro, il giudice di Lava Jato è ormai una star dal successo consolidato. Il suo indice di popolarità, una volta preso possesso del dicastero Giustizia, schizza ancora verso l’alto e supera con distacco quello del presidente neoeletto. La sua inchiesta aveva condotto all’arresto di Lula e all’impeachment di Rousseff. Un presidente in carcere e uno destituito sono un trauma per qualsiasi democrazia, ma lo sono di più per una nata nel 1985. E’ solo dopo aver annunciato che si sarebbe candidato alle presidenziali del 2018 – poi vinte da Bolsonaro – e quando tutti i sondaggi lo davano in testa che Lula viene coinvolto nell’indagine. L’ex presidente non era ancora accusato di alcun reato, e nonostante non si fosse mai sottratto alla giustizia, quando la procura vuole sentirlo come semplice testimone decide il prelievo coattivo. Ordina una pratica straordinaria, e spettacolare: che Lula venga portato a forza dalla polizia all’interrogatorio. Per i suoi oppositori, e per la strategia mediatica dei magistrati, le immagini di quel momento sono una manna.
Le riprese della scena segnano il punto dove inizia un piano inclinato. Le piazze si riempiono. Il gadget più in voga è un pupazzo di Lula che indossa la divisa a strisce bianche e nere come i detenuti nei film; spesso è impiccato a una corda. Poi c’è quello di un serpente con il volto trasfigurato di Dilma Rousseff, presidente della Repubblica in carica. I cori chiedono la galera per lui e l’impeachment per lei. Dilma, neppure sfiorata dall’indagine, è però la donna alla quale, nel 2010, Lula aveva lasciato il testimone: tanto basta. Economista, ex segretaria di stato, ex guerrigliera, a 22 anni è stata imprigionata e torturata per ventidue giorni dalla dittatura militare. E’ stata in carcere per tre anni e privata dei diritti politici per diciotto. A quell’epoca, era soprannominata dai militari la “Giovanna d’Arco della sovversione”. Con il ritorno alla democrazia aveva fatto carriera ed era diventata ministro dell’Energia, infine eletta presidente della Repubblica con un vantaggio di dieci punti sull’avversario. Forte di un indice di popolarità in crescita costante, superato il 60 per cento, Dilma si era convinta che fosse il momento buono per portare a termine un progetto a cui, personalmente, teneva molto: abbassare i tassi d’interesse bancari. Rendere meno costosi i mutui e il credito per le imprese.
Le circostanze sembravano consentirlo. Nel 2011 c’era stata la crisi finanziaria, ma mentre il nostro spread era arrivato alle stelle, le agenzie di rating promuovono il Brasile a guida Rousseff. Standard & Poor’s lo aveva appena alzato, motivando così la decisione: “L’Amministrazione Rousseff ha dimostrato il proprio impegno a rispettare gli obiettivi fiscali e al tempo stesso dimostra la capacità di utilizzare gli strumenti monetari per governare la crescita dell’economia interna”. Il sistema finanziario era solido, le sembrava possibile dare un impulso alla Banca centrale per la riduzione dei tassi che, in Brasile, ancora oggi, sono tra i più alti del mondo. I più alti in assoluto tra i paesi democratici. L’11,5 per cento all’epoca, il 9 nel 2020. Ma la riduzione dei tassi corrisponde a una perdita per le banche, da lì a poco Rousseff sarà costretta a stanziare fondi per coprire i buchi nei bilanci degli istituti finanziari in difficoltà. C’era la crisi in tutto il mondo, e c’era il terremoto Lava Jato, in Brasile divampano le proteste. A Rio come a Brasilia, a Manaus come a San Paolo, le bandiere rosse del Partito dei lavoratori vengono bruciate nelle piazze. In altre, si riuniscono i sostenitori di Lula e di Dilma, che cominciano a chiamare “golpe” quello che vedono accadere davanti ai propri occhi.
Qualche anno più tardi, quando Lula e Rousseff sono già fuori dai giochi, un’inchiesta giornalistica di The Intercept Brasil, il progetto investigativo del Premio Pulitzer Glenn Greenwald, rivela alcuni contorni inquietanti della vicenda giudiziaria, e appare ancor più chiaramente quello che già si intravedeva all’epoca dei fatti. L’inchiesta si basa sulle informazioni messe a disposizione da una fonte interna al pool, che porta a The Intercept un archivio di conversazioni via Telegram del giudice Sergio Moro. Greenwald ne fa una serie di reportage poi soprannominati “Il Watergate brasiliano”, un successo mondiale. Come ha scritto il professore Diego Corrado, che ha insegnato diritto all’Università Bocconi e all’Università di San Paolo in Brasile: “Moro non era imparziale tra accusa e difesa, dirigeva le operazioni del pool degli inquirenti, indicava loro tempi e modi delle operazioni, la strategia mediatica, ordinava di risparmiare politici di primo piano avversari del partito di Lula come l’ex presidente Fernando Henrique Cardoso ‘per non offendere personalità il cui appoggio è importante’. In un passo particolarmente rivelatore del clima in cui si è svolto il giudizio, commenta in modo sprezzante la difesa dell’ex presidente Lula, invitando l’accusa a ridicolizzarla sui media. La tesi dei sostenitori di Lula, ‘la Lava Jato è solo il braccio giudiziario di un golpe finalizzato a toglierci di mezzo’, di cui finora si intravedevano solo indizi, acquista improvvisamente peso e consistenza”.
Il giudice Sergio Moro aveva coltivato a lungo il sogno di emulare Antonio Di Pietro, e la più grande opera di questo autore. Ancora nel 2016, Piercamillo Davigo era andato in Brasile per partecipare a un convegno assieme a Sergio Moro in cui si parlava dell’esperienza di Mani Pulite e di quella di Lava Jato. Anche la Tangentopoli tropicale si basa sul principio che non esistono singoli reati da perseguire, ma un sistema da sconfiggere. Anche durante Lava Jato, i media hanno contribuito alla creazione del “culto” del giudice. A quelle latitudini succede qualcosa di molto simile a quello che si è visto da noi negli anni Novanta, quando le riviste patinate mettevano in copertina un Di Pietro sorridente e il titolo: “Chi arresto questa sera?”. Quando dai balconi di Milano si appendevano striscioni “Di Pietro fan club” e il giudice veniva invitato nelle discoteche come vocalist d’eccezione.
Anche durante Lava Jato, tutte le persone coinvolte venivano tenute in carcere prima del processo e non avevano speranza di uscirne se non facevano qualche nome. Per questo, tutti facevano qualche nome. Quelli realmente a conoscenza di scambi illeciti, ma anche gli altri. Durante le varie fasi dell’inchiesta, erano stati arrestati politici di tutti i partiti, ma molti brasiliani non sembravano essersene accorti. La strategia mediatica dei giudici, poi svelta da The Intercept, aveva funzionato. La sensazione diffusa nel paese, grazie ai messaggi che l’opposizione e Moro erano riusciti a veicolare, era che l’inchiesta Lava Jato riguardasse il governo Rousseff. Aécio Neves, il candidato contro Dilma alle elezioni del 2014, indagato per corruzione e intralcio della giustizia, aveva fondato la sua campagna elettorale su uno slogan: “Non siamo governati da un partito [il Partito dei lavoratori], ma da un’organizzazione criminale!”. Dilma non era mai stata sospettata di essersi appropriata di denaro pubblico ma, arrivati a quel punto, non era importante. Sui social iniziavano a moltiplicarsi le foto e i meme di Lula e Dilma trasfigurati in lupi mannari, demoni e zombie, nascevano gruppi Facebook e petizioni per chiedere che venisse reintrodotta la pena di morte, da applicare nei confronti degli imputati per il reato di corruzione.
Nel 2014, Dilma vince di nuovo le elezioni, questa volta con un piccolo vantaggio. L’anno successivo inizia il processo di impeachment nei suoi confronti. La motivazione consiste nell’accusa di aver trasferito fondi alle banche pubbliche per coprire i buchi di bilancio. Lo stanziamento successivo alla decisione di ridurre i tassi. Una giustificazione per la deposizione di un presidente talmente bizzarra che nessuno aveva voglia di parlarne pubblicamente. Si discuteva piuttosto dell’inchiesta Lava Jato, la presidente non era accusata di nessun reato, ma questo è ciò che tutti pensavano: la pulce nell’orecchio di un’intera nazione. In quei giorni Romero Jucá, oggi leader del Pmdb, trama affinché si realizzi un cambio di regime che conduca a un nuovo governo, guidato dal vice di Rousseff – cioè dal capo del partito di Jucá – e con un ministero per sé. Nei mesi successivi verrà fuori che proprio il suo Pmdb era il partito brasiliano che aveva ricevuto il maggior numero di tangenti dal conglomerato industriale Odebrecht. I dirigenti dell’azienda racconteranno che “i senatori del Pmdb erano i parlamentari più dediti agli interessi del gruppo e quelli che ci hanno chiesto più soldi”. Anche in Brasile, i partiti che hanno pensato di cavalcare le inchieste giudiziarie per colpire avversari politici sono stati illusi e poi delusi.
Nel dicembre del 2015 inizia il processo di impeachment contro Dilma Rousseff, i “sì” alla Camera sono 367, la maggioranza. A maggio del 2016 viene deposta per decisione del Senato. Bolsonaro, in Parlamento, si avvicina al microfono e prima di annunciare il suo voto a favore dell’impeachment, premette che il suo discorso vuole dedicarlo alla memoria del colonnello Carlos Alberto Brilhante Ustra. Un colonnello che in Brasile ha fatto la storia, ed è diventato famoso per le carcerazioni illegali e le torture ai tempi della dittatura. Il colonnello Carlos Alberto Brilhante Ustra è, soprattutto, il torturatore di Dilma Rousseff. Quello che aveva deciso di sottoporla all’elettroshock quando lei aveva 22 anni. “E’ stato un eroe”, dice di lui Bolsonaro in Parlamento. Poi ascolta il verdetto strappando con i denti e le mani quel pupazzo di Lula con la tuta a strisce bianche e nere. Fa per la prima volta il gesto della mitraglia, il gesto simbolo che continuerà a fare ancora per due anni, davanti a ogni telecamera che incontri sulla sua strada, fino al giorno della sua vittoria. E’ proprio durante l’impeachment che Jair Bolsonaro decide di candidarsi alle presidenziali del 2018. Prima che Lula venisse incarcerato, l’attuale presidente aveva l’8 per cento.