Lucida e consapevole follia
Navalny va fino in fondo
Perché il capo dell’opposizione russa è tornato a Mosca? Il calcolo estremo e drammatico di un dissidente che s’è fatto grande
Perché Alexei Navalny è tornato in Russia, pur sapendo che lo aspettavano l’arresto, il processo e la prigione? Se lo sono chiesto in tanti, già quel 17 gennaio in cui è stato arrestato appena ha messo piede nell’aeroporto di Mosca, con la moglie Yulia che lo abbracciava in lacrime davanti al gabbiotto delle guardie di frontiera. Il capo dell’opposizione russa aveva annunciato la sua decisione di tornare in patria subito dopo essere uscito dal coma, ancora ospite di Angela Merkel dopo il tentato avvelenamento dell’agosto scorso. Riconsegnarsi al regime che l’aveva già voluto morto una volta poteva essere una scommessa azzardata, un calcolo paradossale – per esempio, dopo che i suoi assassini si erano fatti beccare con il Novichok in mano, Putin avrebbe protetto Navalny come la pupilla dei suoi occhi – oppure una decisione di andare fino in fondo.
Visto a distanza di quattro mesi, è stato un progetto di lucida e consapevole follia. Rimanere in Germania, al sicuro, libero di esprimersi, avrebbe comportato la trasformazione in uno dei tanti esuli russi che abitano tra Londra e Berlino, denunciando i crimini della dittatura su Twitter. Se mezzo milione di russi si dichiara pronto a scendere in piazza per Navalny – consegnando, ancora prima della manifestazione, i propri nomi, cognomi e indirizzi a un regime poliziesco repressivo – è perché il loro leader rischia insieme a loro e molto più di loro. Sopravvissuto per miracolo, Navalny ha deciso di trasformare il suo stesso corpo in un atto d’accusa contro il putinismo: dalle immagini in coma a quelle della riabilitazione, con le mani tremanti e il foro dell’intubazione sul collo, ha esibito quello che gli è stato fatto, in quella cultura dei social che trasforma tutta la vita dell’influencer in uno statement, ma anche in un’idea di testimonianza drammatica. Il martirio è la forma più efficace di lotta politica, da Bobby Sands a George Floyd.
Già nel suo ultimo discorso in tribunale, nel febbraio scorso, Navalny aveva insistito sulla sua fede cristiana, spostando quindi la sua immagine da quella di un modernizzatore che vuole rottamare un regime di vecchi nostalgici a quella di un dissidente classicamente russo, che si ispira ad Aleksandr Solzenicyn e Andrei Sacharov, dei quali sta ora seguendo le orme nello sciopero della fame e nella minaccia, da parte dei suoi carcerieri, della tortura dell’alimentazione forzata. La sua rivoluzione, derisa dai putiniani come la protesta dei fighetti, la rivolta della tastiera, un tentativo di regime change a colpi di meme e tweet, spalanca una dimensione drammatica, fisica, sofferta, che da una festicciola di ragazzini diventa una faccenda seria, da grandi. È un modo estremo di attirare l’attenzione non solo sui casi clamorosi di avvelenamenti e pallottole contro i leader del dissenso, ma anche su tutto quell’universo di violenza quotidiana di manganellate, torture, minacce e abusi, sui domiciliari per i giovanissimi reporter del giornalino studentesco Doxa, sulle condanne ad anni di carcere per dei retweet, sui genitori dei collaboratori di Navalny che vengono arrestati per ricattare i figli, sull’angoscia delle carceri russe, che compongono ancora l’Arcipelago Gulag.
Un calcolo estremo, con il rischio immenso non solo di morire, ma di lasciare orfano il movimento che verrebbe schiacciato senza pietà, una volta spenti i riflettori mediatici sulla tragedia. L’autobiografia di Solzenicyn si intitolava in russo “Il vitello incornò la quercia”, un’allusione alla disperata e apparentemente inutile sfida individuale al sistema, che però può cambiare la storia. Scegliendo di andare fino in fondo, Navalny conta di vincere: se il Cremlino cede, aprirà un’altra breccia nel regime mostrando che non bisogna averne paura; se muore, Putin entrerà nella storia come un assassino, non solo agli occhi di Joe Biden.