Sono passati vent'anni da quell'11 settembre
Il giorno che fermò il tempo e cambiò la storia di tutti. Gli articoli dalle pagine del Foglio, nella settimana che seguì gli attentati alle Twin towers e al Pentagono
12 settembre 2001
“La libertà occidentale deve essere protetta: Italia al fianco degli Usa”
Il premier giudica il grande disordine mondiale dopo gli attacchi al cuore del mondo libero. Pena per le vittime: “Vi racconto l’ansia di Bush”
Silvio Berlusconi ieri nel primo pomeriggio non riusciva a staccare gli occhi dalla Cnn, ad Arcore, e martoriava il telefono in contatto con Palazzo Chigi, con la Farnesina, con la Difesa e con alcune delle maggiori cancellerie europee, ma poi è salito su quell’aereo che aspettava in pista e ha raggiunto Roma: “Provo una grande pena per le vittime innocenti di New York e di Washington, per i passeggeri degli aerei-bomba, per le paure e le umiliazioni inferte dal terrorismo più spietato a tutti noi, uomini liberi e pacifici. Il World Trade Center è il simbolo della libertà internazionale dei commerci, una bandiera sulla linea d’orizzonte di una delle città più libere e operose del mondo: essere stati costretti ad assistere al crollo delle Torri Gemelle è tremendo, una battaglia perduta la cui eco rimbomberà per una o due generazioni. Lo stesso vale per il Pentagono, l’edificio in cui è custodita gran parte della nostra sicurezza, un architrave necessario all’ordine e all’equilibrio del mondo. Ma in questa guerra per la pace e per l’ordine internazionale, e vorrei che questo fosse chiaro a tutti in Italia, noi siamo e restiamo i più forti.
La libertà occidentale deve essere e sarà protetta con il più assoluto rigore, con una fermezza che non potrà mai dimenticare e perdonare: l’Italia è al fianco degli Stati Uniti e del presidente George W. Bush nella caccia ai colpevoli di questo immane disastro, nell’identificazione delle responsabilità a qualunque livello esse si collochino”. Berlusconi sa essere freddo, ma non nasconde le emozioni sotto la maschera della razionalità. Dice che “l’amministrazione americana vive da tempo sotto la cappa di piombo di una strana inquietudine per l’attività degli Stati-canaglia, i rough-States, e il presidente Bush, con parole ferme e severe, trasmetteva quest’ansia agli alleati e a noi stessi, nelle riunioni del G8 e nel successivo, caloroso incontro di Roma. Sotto l’ottimismo americano, questa straordinaria manifestazione della coscienza civile di quella grande società, fermentava una preoccupazione, evidentemente suffragata dalle istituzioni preposte all’informazione e alla sicurezza. Non è affatto un caso se, a partire dalla campagna elettorale repubblicana per finire con i primi cento giorni della presidenza eletta, l’obiettivo dichiarato è stato lo ‘scudo’, l’approntamento di un sistema di tutela collettiva contro la proliferazione terroristica di armamenti e altri mezzi e piani di offesa. Negli ultimi dieci anni, quelli che ci separano dal crollo del muro di Berlino, tutto è cambiato, e la grande questione globale che abbiamo di fronte sta nel come difendersi in un’epoca in cui l’equilibrio mondiale non è più fondato sul bilanciamento bipolare della guerra fredda; come garantire la sicurezza dell’Occidente, che è poi la premessa della pace e del massimo livello realizzabile di giustizia nel mondo intero”.
“Anche i sordi ora devono ascoltare”
Berlusconi conosce le resistenze e le inerzie burocratiche frapposte a una piena assunzione di responsabilità in Occidente. Non desidera alimentare alcuna polemica, ma dice con l’aria di chi fa sul serio: “Ora che si è visto quali ferite può aprire nel corpo della grande democrazia americana, e dunque nel cuore del mondo libero, il terrorismo sponsorizzato dagli Stati-canaglia, anche i sordi cominceranno a intendere, anche i ciechi a vedere. Almeno lo spero, e non risparmierò alcuno sforzo, con Renato Ruggiero e Antonio Martino, perché l’Europa faccia suo fino in fondo l’impegno comune a difendere a ogni costo la sicurezza dei cittadini. Questa sicurezza è impossibile in un mondo in cui la pace non sia protetta dall’intelligenza degli uomini e dalla forza dei giusti: questo è il vero problema”. Si coglie nel paese un forte disorientamento. La gente sa che è difficile difendersi dalla combinazione del terrorismo di Stato e del fanatismo fondamentalista, dall’uso infernale del dottrinarismo religioso. Ma che i kamikaze potessero osare fino a quel punto era imprevedibile, era fino a ieri pura fantascienza. “E’ così - ci dice Berlusconi - tuttavia sarebbe assurdo disperare, bisogna sapere che ce la faremo, come ha detto il presidente Ciampi. L’America ieri è sembrata come non mai fragile, vulnerabile, ma chi la conosce bene sa quali siano le risorse civili, di unità e solidarietà politica, che la tengono insieme da oltre due secoli. Sappiamo che alla lunga il coraggio dei giusti, la ricchezza intellettuale e scientifica racchiusa nelle teconologie, e una giusta politica di rigore contro il terrorismo, avrà partita vinta. Voglio che gli italiani questo lo tengano a mente, nel loro intimo”.
La Jihad dei cieli
Il piano aereo di Bin Laden e le (deboli) smentite dei talebani Come cresce una rete terrorista
Uno degli innumerevoli piani che i Servizi segreti di mezzo mondo hanno negli ultimi mesi attribuito a Osama bin Laden, lo sceicco terrorista che opera nascosto nell’Afghanistan dei talebani, prevedeva il dirottamento di sette aerei passeggeri da far precipitare come bombe devastanti sulle città americane. Ieri quella che a molti poteva sembrare solo una leggenda nera, una folle teoria, è diventata realtà con la spaventosa offensiva terroristica lanciata contro gli Stati Uniti. Il primo obiettivo colpito dai kamikaze islamici (qualunque sia la loro sigla) sono state le Torri Gemelle di New York. Un gesto di alto significato simbolico, tanto più che nel 1993 i due grattacieli erano stati colpiti da un altro grave attentato, che segnò l’inizio della nuova stagione terroristica islamica dopo la fine della Guerra fredda. La cellula di fanatici responsabile dell’attentato di allora fu presto scoperta.
Tra i condannati all’ergastolo c’è lo sceicco cieco Omar Abdel Rahman. Da tempo residente a New York, Rahman era il faro spirituale della Jamaa Islamjia, l’organizzazione terroristica egiziana che insidia il regime del presidente Hosni Mubarak. Nel 1995 venne poi arrestato in Pakistan il vero capo operativo dell’attentato al World Trade Center, Ramzi Yousef, condannato a 240 anni di carcere. Yousef, di origini palestinesi, si è fatto le ossa in Afghanistan durante la lotta dei mujaheddin contro l’invasore sovietico negli anni Ottanta. In quegli anni i volontari della Jihad erano coordinati da Osama bin Laden, allora un semisconosciuto saudita, devoto ad Allah e ricco di famiglia. Fu proprio Bin Laden a colpire i primi obiettivi statunitensi nei paesi del Golfo durante l’intervento Onu in Somalia. Non è chiaro se la sua organizzazione Al Qaida (la rete) fosse già coinvolta nell’attacco alle Torri Gemelle del ’93. Ma, intervistato, Bin Laden ha sempre difeso Yousef, considerandolo un mujahed, un combattente per la libertà. L’unica cosa certa è che Bin Laden in quegli anni aveva stretti legami con la galassia del fondamentalismo che cova nelle università del Cairo. Il suo braccio destro, con cui ha fondato il Fronte islamico contro gli ebrei e i crociati (i cristiani), si chiama Ayman Al Zawahiri ed è stato condannato a morte nel suo paese in quanto esponente terrorista. Dall’Afghanistan all’Egitto. Il salto di qualità Bin Laden lo compie con gli attacchi alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nell’estate del 1998. Quattro islamici, accusati di far parte di al Qaida e di aver partecipato agli attentati, verranno in seguito arrestati in diversi paesi, processati e condannati recentemente all’ergastolo.
Le Twin Towers e la svolta degli anni Novanta
Negli anni Novanta l’al Qaida ha stretto legami con le frange terroristiche islamiche di mezzo mondo dall’Algeria alle Filippine, passando per il Kashmir, il Libano e la Palestina. Con l’avvento al potere a Kabul dei fondamentalisti talebani le reclute di queste formazioni hanno trovato ospitalità e addestramento in Afghanistan. Oggi sono almeno 12 mila i volontari musulmani provenienti da varie parti del mondo che combattono al fianco dei talebani. Di questi, almeno duemila sono arabi e direttamente dipendenti da Bin Laden. Un serbatoio eccezionale per qualsiasi operazione terroristica, se si tiene conto che Bin Laden è sempre stato accusato di amare i piani devastanti e straordinari. Una cellula di algerini collegata alla sua organizzazione è stata scoperta in Germania e Inghilterra, poco prima di un probabile attacco al Parlamento europeo a Strasburgo e alla metropolitana di Londra.
Lo scorso anno, all’inizio dell’Intifada, un’altra cellula di Bin Laden era riuscita quasi a colare a picco una nave da guerra americana nel golfo di Aden. Da valutare è anche l’infuenza crescente di Bin Laden nel conflitto israelo-palestinese. Nei campi profughi in Libano comandano gli ex colonnelli di Arafat oramai fuori controllo e sospettati di aver stretto un patto d’acciaio con lo sceicco saudita. Il quale preferisce stringere alleanze con i gruppi palestinesi meno importanti e quindi maggiormente controllabili. Anche se non si escludono suoi contatti con Hamas, la Jihad islamica e i Fronti di liberazione, l’ala sinistra del movimento palestinese, ultimamente molto attivi militarmente contro gli israeliani. Il cerchio si chiude con lo sceicco cieco, condannato all’ergastolo negli Usa. I suoi familiari hanno scritto ai talebani suggerendo uno scambio fra l’anziano leader spirituale e gli otto occidentali, fra cui due americane, arrestati a Kabul per proselitismo. Il ministro degli Esteri afghano Wakil Ahmed Muttawakil non ha escluso che se ne possa parlare. Ma solo alla fine del processo contro gli infedeli. Ieri i talebani, per bocca dell’ambasciatore in Pakistan, hanno condannato gli attacchi terroristici contro gli Stati Uniti, mentre un esponente di Kabul ha dichiarato che “Bin Laden non può essere sospettato”, perché “non avrebbe le capacità di realizzare una simile azione”. Prese di distanza che, al momento, appaiono una mossa tattica in attesa della reazione americana.
13 settembre 2001
La risposta
Bin Laden e Saddam sotto tiro, e ce n’è anche per il Pakistan (però ha la bomba atomica)
Se è guerra e non semplicemente atto di terrorismo, allora una rappresaglia, o numerose rappresaglie, non bastano, la risposta deve essere di guerra e dopo l’umiliazione e l’orrore dev’essere vittoria. Per questo ci vuole un po’ di tempo, e non solo per lo shock, che pure rimane, che ha fatto dire a un generale degli Stati maggiori: “Questa è la guerra del Ventunesimo secolo e noi l’abbiamo persa”. Alla Casa Bianca, riunito il Consiglio di guerra, emergenza ancora al livello massimo, il delta, lavorano su tre filoni: arresto e confessione di complici nel paese; elenco di azioni e luoghi possibili dell’intervento; completa adesione della Nato al progetto. E se Osama bin Laden è l’obiettivo palese, ce n’è un altro più ambito, è Saddam Hussein. I paesi individuati sono l’Afghanistan dei Talebani, che ospita Bin Laden e i suoi campi di addestramento di terroristi; l’Iraq, che in dieci anni non si è mai riusciti a liberare dal tiranno di Tigrit; e il Pakistan, vera base del terrorismo islamico, che ha il nucleare e va trattato con estrema cautela, ma una lezione la deve ricevere. I territori palestinesi non sono fuori dall’elenco della Casa Bianca, tutt’altro, anche perché c’è un’opinione pubblica da placare, e le immagini tv dei palestinesi che inneggiano, gioiscono, ballano e cantano sulle torri che crollano, hanno colpito e continuano a essere trasmesse con comprensibile insistenza.
La strage dell’11 settembre viene alla Casa Bianca considerata anche l’occasione per chiedere duramente ai sauditi e agli altri paesi arabi alleati di smettere con la doppia politica di amicizia con Washington e finanziamenti nemmeno tanto occulti al terrorismo arabo. Di qui tanta insistenza nei tre discorsi di Bush sull’intento di colpire anche i fiancheggiatori. L’operazione è possibile solo se la Nato si dice d’accordo tutta, come in un’alleanza da guerra del Golfo del ’90, gli inglesi con gli americani forza d’attacco, gli altri, soprattutto Italia e Spagna, a disposizione con le basi militari, i francesi e i tedeschi di nuovo d’accordo, ricompattati dopo mesi di quasi scisma. Per questo al Consiglio Atlantico di ieri sera a Bruxelles gli Stati Uniti hanno chiesto l’applicazione dell’articolo 5 del trattato, quello che, in caso di guerra portata a uno dei paesi dell’alleanza, vincola tutti gli altri a comune risposta. I consiglieri di Bush e i vertici militari sono abbastanza sereni che la risposta sarà positiva. Lord Robertson, il segretario, avrebbe già fornito ampie rassicurazioni, così i colloqui telefonici diretti che Bush ha avuto con José Maria Aznar, Silvio Berlusconi, Jacques Chirac ma anche Lionel Jospin, Gerhard Schroeder, il cancelliere tedesco che ha felicemente definito quella di martedì “una dichiarazione di guerra a tutto il mondo civile”. Alla Casa Bianca contano molto sull’effetto paura, la convinzione diffusa nelle capitali europee che nessuno sia al sicuro, dunque convenga schierarsi.
La voglia di rivincita
La voglia di rivincita è grande in queste ore, ed è naturale, ma c’è soprattutto un problema politico, la credibilità del presidente. Nessun dubbio che gli americani abbiano un tale senso dell’unità che in questi casi si schierano senza ambiguità o remore, basta citare la senatrice Hillary Clinton che ieri dichiarava “ci stringiamo tutti intorno al nostro presidente”, ma la risposta deve essere adeguata e soddisfacente per tutti, o il danno all’immagine del giovane Bush sarà fatale, si affermerà l’opinione comune che 1) il presidente ha rinunciato a far politica in Medio Oriente, 2) il paese era indifeso, la Cia e le altre agenzie inefficienti, 3) la recessione economica che molti paventano diventerà disastro.
E l’unica risposta veramente adeguata, quella che pareggerebbe conti storici, dieci anni almeno di conti, è una battaglia fatta di attacchi aerei continui che porti all’eliminazione fisica di Saddam Hussein e di Osama bin Laden. Questo stanno progettando i vertici militari che tengono aperto un Pentagono offeso, ottocento morti che esasperano il clima. Ora è fondamentale il lavoro del Fbi, le operazioni in Florida e a Boston, la caccia a personaggi sospetti entrati negli States dal Canada, già tutti arrestati, con tanto di manuali su come si pilota un grande aereo. Non è difficile se l’obiettivo è farlo schiantare su un palazzo. Gli arrestati devono parlare, confessare, comunque essere identificati per nazionalità e appartenenza politica; questo renderà legittimi i target di fronte a qualsiasi polemica e contestazione. Di una cosa Bush può dirsi sicuro, ha mani libere nel suo paese, ha con sé tutto il Congresso, l’opposizione canta con lui God bless America e nessuno tenterà di approfittare della tragedia per scopi politici interni. Ma non deve fallire. La war room è gestita da Donald Rumsfeld e da Condoleezza Rice, supervisiona il vicepresidente Dick Cheney. Colin Powell, colomba dell’Amministrazione, quello che voleva il dialogo continua a essere isolato. Ha qualche argomento al suo arco, il dialogo era sempre riuscito a evitare la catastrofe. Ma ora “runner”, nome in codice di Bush, sogna una vittoria seria.
L’alleato russo
Putin teme che il terrorismo punti a conquistare o a far esplodere il Caucaso
Gli organizzatori dell’attacco di due giorni fa contro gli Stati Uniti ora devono, anche loro, confrontarsi con una nuova realtà internazionale. Il mondo neppure per loro è quello di prima. Se c’è bisogno di una prova del cambio di scenario, la migliore giunge forse dalla posizione assunta dalla Russia. Mai prima nella lunga storia dei rapporti russo-americani Mosca si è sentita tanto solidale con gli Stati Uniti. Questa solidarietà non si limita ai vertici dello Stato, George W. Bush e Vladimir Putin, alla collaborazione dei Servizi d’intelligence contro il terrorismo, né ai ragionamenti di carattere politico o diplomatico. Con l’aggressione contro gli americani, l’opinione pubblica russa rivive la paura e gli eventi dell’autunno del 1999, quando edifici di Mosca e di altre città furono fatti saltare in aria dai terroristi. Nessuno si sente estraneo rispetto ai tragici fatti di New York e Washington perché chiunque d’ora in poi si considera vittima eventuale di un attacco terroristico delle stesse dimensioni.
L’opinione dominante in Russia dà infatti per certo che il terrorismo internazionale affonda le sue radici nelle stesse strutture del radicalismo religioso, si alimenta delle stesse idee, si nutre delle stesse fonti di finanziamento. L’enclave terrorista in Cecenia, con a capo l’ex cittadino giordano Hattab, è ancora pericoloso e attivo, non soltanto per gli errori commessi dall’amministrazione di Boris Eltsin, ma anche per la continua assistenza che riceve da parte di alcuni centri dell’estremismo islamico mondiale. Il legame tra Hattab e Osama bin Laden, su cui si concentrano ora i sospetti dei Servizi occidentali per quanto riguarda gli attacchi di due giorni fa, è un fatto sul quale a Mosca non ci sono dubbi. Ma l’ “internazionale estremista” non si riduce a un paio di nomi. Dopo il crollo dell’Urss, Mosca ha intravisto, e ha cercato di fermare, i tentativi di ricreare nel Caucaso del Nord quello Stato teocratico islamico, esistito per un quarto del XIX secolo, che lottò contro la Russia degli zar sotto la guida dell’imam Shamil. Sono di dominio pubblico le mappe geografiche, pubblicate negli ultimi anni, che fanno vedere i confini del nuovo imamato che includerebbe tutto il territorio nordcaucasico della Russia, dal Mar Caspio al Mar Nero.
L’aggressione dei reparti di Hattab contro il Daghestan (una delle Repubbliche della Federazione Russa) nell’agosto del 1999 – l’atto che segnò l’inizio della guerra in Cecenia – era stata interpretata a Mosca come il primo passo verso la realizzazione dei progetti dell’estremismo islamico in Russia. E’ difficile, per Mosca, dare un’altra interpretazione: con gli accordi di Hassavjurt, del 1996, tra la Russia e la Cecenia quest’ultima ricevette non solo l’indipendenza di fatto, ma anche quella giuridica. Gli accordi infatti stabilivano che le relazioni tra la Russia e la Cecenia non dovevano più essere regolate secondo la Costituzione russa, ma sulla base delle norme internazionali. I capi militari che comandavano in Cecenia aspiravano a obiettivi più ambiziosi. Non si trattava solo dell’attacco contro il Daghestan, ma dell’intero programma che prevedeva la conquista di tutto il Caucaso del Nord. La bandiera che sventolavano i fanatici doveva essere portata in tutte le aree della Russia abitate dalle popolazioni musulmane. Hattab apertamente dichiara che il Caucaso deve diventare musulmano, cioè: Georgia e Armenia, i due paesi cristiani del Caucaso del Sud, devono attendersi la stessa sorte del Daghestan russo.
La fragile Georgia e gli altri pericoli vicini
E’ un dato di fatto riconosciuto ormai ufficialmente dalle autorità georgiane che i partecipanti all’attentato del 9 febbraio del 1998 contro il presidente della Georgia, Eduard Shevardnadze, si erano esercitati e preparati a quest’atto terroristico nei campi militari specializzati in Cecenia. La Georgia stenta a riconoscere un altro fatto non meno importante: la completa perdita del controllo da parte delle autorità della situazione nella valle Panchissi per la presenza, da quelle parti, di guerriglieri giunti dalla Cecenia. Secondo fonti russe, la valle serve agli estremisti che combattono in Cecenia come base di riposo, di rifornimento e di preparazione per nuove operazioni militari. Il pericolo riguarda il Caucaso intero. Se si considera la vulnerabilità della vicina Asia centrale, i continui attacchi di gruppi armati di fanatici religiosi e gli atti terroristici contro il Tagikistan, l’Uzbekistan e la Kirghizia, e la guerra in Afghanistan, è facile comprendere l’apprensione dei russi per le molte manifestazioni dell’estremismo. La Russia, per queste ragioni, ora si sente più che mai legata ai paesi che si oppongono al terrorismo.
L'amico cinese
Pechino sta con Bush ed è pronta a dare una mano contro l'internazionale islamica
Contro Osama bin Laden, la Cina sta con George W. Bush. E ci tiene a farlo sapere. Il nuovo ambasciatore americano a Pechino, Clark Randt, riferisce che il ministro degli Esteri Tang Jiaxuan ha chiamato al telefono il collega Colin Powell e gli ha detto: “Nella lotta contro la violenza terrorista, il popolo cinese sta col popolo americano”. La cosa più significativa è che lo dicono pour cause, non per ovvie ragioni di opportunità diplomatica. I due giganti, le cui politiche estere apparivano sino a pochi mesi fa in rotta di collisione, sembrano avere trovato sul tema un terreno comune. Comuni interessi. E soprattutto un comune nemico. Insomma più di un motivo per far passare in secondo piano gli altri dissapori. “Se non combattiamo contro questo genere di terrorismo, un giorno potremmo ritrovarcelo in casa”, è il modo in cui la mette Zhu Feng, direttore del programma di ricerche sulla sicurezza internazionale all’Università di Pechino. “Per questo dobbiamo unirci all’America e agli altri paesi occidentali nel combattere senza quartiere il terrorismo di massa”, ne conclude. Tra la gente a Pechino c’è ancora qualcuno che ce l’ha con l’America. “Se lo sono meritato. Sono prepotenti e hanno attirato l’odio di molti”, si sente dire.
Ma le immagini di Manhattan in televisione cui sono rimasti incollati ieri i telespettatori cinesi hanno ricordato immediatamente la skyline della nuova Pechino e della nuova Shanghai. Non è difficile immaginare un Boeing che si schianta sul Jing Mao al di là del Huangpu, una meraviglia più alta ed elegante delle Torri gemelle. Nel World Trade Center c’erano gli uffici di 14 compagnie e banche cinesi. Ieri per la prima volta ha vacillato anche la Borsa cinese: “Se gli attentati innescano una recessione, colpirebbe anche la nostra economia”, ha osservato il vice ministro del commercio Sun Zhenyu. Anche la Cina ha ora qualcosa da perdere. Non è più quella di Mao Tse-tung che faceva abbattere le antiche mura della capitale per costruire un labirinto sotterraneo di rifugi antiatomici, argomentando che, anche in caso di guerra nucleare, i cinesi “sono così tanti che comunque almeno un centinaio di milioni sopravviverebbero”.
War games in Asia centrale
In agosto l’Esercito popolare di liberazione aveva condotto una delle più grandi manovre militari degli ultimi tempi. Dove? Contro quale nemico immaginario? Provi il lettore a indovinare. Nello Stretto di Taiwan, per esercitarsi a una eventuale invasione anfibia dell’isola ribelle? Nel Mar della Cina, per esercitarsi ad affrontare incursioni di aerei spia della Us Navy o ad affondare una portaerei? Nel Nord-Est, per esercitarsi a una eventuale invasione della Siberia ricca di risorse naturali? Nello Yunnan, al confine col Vietnam, o sull’Himalaia, ai confini con l’India e il Pakistan? No. Nello Xinjiang, il Turkestan cinese, nel cuore dell’Asia centrale mussulmana. “I war games in Cina non sono mai solo pure esercitazioni militari. Si svolgono deliberatamente laddove i leader politico-militari ritengono possa convogliare un messaggio preciso”, osserva un esperto come Ehsan Ahrari, docente di strategia militare e problemi della sicurezza nazionale all’Armed Forces Staff College in West Virginia. Nel caso specifico lo studioso americano non ha dubbi: il messaggio era diretto ai separatisti islamici uyguri e uzbeki, nel Turkestan cinese e alla “internazionale” islamica che li sostiene da oltre i confini. Suona: non consentiremo che ci sia una Cecenia cinese. Promette di schiacciare sul nascere ogni velleità, con tutto il peso della potenza militare.
La Russia di Vladimir Putin e la Cina di Jiang Zemin sono da tempo unite da una comune “teoria del domino”, per cui bisogna evitare a ogni costo che un altro degli Stati della regione finisca sotto il dominio del fondamentalismo islamico come l’Afghanistan. Temono che l’infezione si propaghi, la caduta di anche una sola altra tessera porti alla caduta a catena delle altre. Per questo hanno dato vita al Gruppo di Shanghai, che comprende le ex repubbliche sovietiche del Kazakistan, Kirgikistan, Turkmenistan, Tagikistan e da poco anche l’Uzbekistan. Sono pronti a usare la mano dura per impedire che il Movimento islamico dell’Uzbekistan, legato ai talebani afghani si estenda oltre i confini. Uno degli obiettivi dichiarati della nuova organizzazione è combattere l’influenza dell’“estremismo religioso”. La minaccia islamica interna non è preoccupazione nuova per Pechino. La differenza è però che, mentre negli anni 90 il luogotenente di Mao nello Xinjiang, Wang Enmao, pensava di risolvere il problema innalzando “una grande muraglia d’acciaio” ai confini della Cina con i vicini dell’Asia centrale, oggi puntano a una soluzione concertata. Senza contare che Bin Laden è una vecchia conoscenza. Aveva cominciato a preoccuparli ben prima che divenisse il nemico numero uno dell’America, sin da quando, agli inizi degli anni Novanta, correva voce che intendesse spostarsi dall’Afghanistan in Xinjiang per guidare una guerra santa contro il dominio cinese. Per questo, non avrebbero la minima obiezione se Bush usasse la mano pesante. L’impressione è che, se la rappresaglia fosse mirata, rispettosa del diritto internazionale, potrebbero dare una mano.
14 settembre 2001
Il target
Colpire a Kabul (con i russi) e in Libano (il Pakistan e i Sauditi sono sotto stretta osservazione)
Al Pentagono ormai è quasi tutto pronto. I piani operativi per la reazione, dopo l'attacco a Washington e New York, sono ultimati all'80 per cento. Mancano le verifiche, ricavate dalla ricognizione satellitare, e le conferme per quanto riguarda le “responsabilità” - cioè su chi siano gli organizzatori – di quello che il presidente George W. Bush ha definito “un atto di guerra”. Il Pentagono sta studiando una serie di opzioni militari, alcune delle quali, mezza dozzina secondo il Washington Post, si concentrano sull’Afghanistan e su Osama bin Laden, il terrorista saudita protetto dai Talebani. I piani prevedono un impiego consistente della forza militare disponibile, a partire dalle basi Nato in Europa e nel Golfo e dai gruppi navali statunitensi. Il segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, due giorni fa ha inviato un videotape a tutto il personale delle Forze armate statunitensi. Ha spiegato che l’Amministrazione sta preparando un’azione ambiziosa. I vertici politici e militari ovviamente non rilasciano dichiarazioni su questi progetti, ma gli obiettivi presi in considerazione sono Afghanistan, forse Pakistan, Libano, Iraq, la galassia delle 24 organizzazioni legate ad Al Qaida (la base) di Osama Bin Laden e alcuni paesi che ospitano leader pericolosi o finanziano l’Internazionale del terrore. Il riserbo sulla pianificazione militare è ancora più stretto per le preoccupazioni relative alla possibile infiltrazione, negli ultimi anni, di elementi vicini al terrorismo islamico nella Cia e nella Nsa (National security agency).
Le operazioni messe a punto dal Pentagono potrebbero prevedere un’incursione massiccia in Afghanistan, nel covo di Bin Laden, condotta con forze speciali, in collaborazione con reparti Spetsnaz russi, con il compito di catturare il leader di Al Qaida e i suoi luogotenenti mentre aerei e missili coprirebbero l’assalto colpendo i centri militari di Bin Laden e dei Talebani. Il supporto logistico di questa fase sarebbe garantito dalla disponibilità di Russia, Uzbekistan e Tagikistan a offrire le basi alle forze americane. Anzi, secondo fonti vicine all’intelligence federale russa (Fsb), velivoli di Mosca (con le insegne di Massoud) hanno già attaccato la notte dell’11 settembre l’aeroporto di Kabul e il presidente Vladimir Putin è interessato a collaborare con l’Occidente per sconfiggere il regime talebano che con il supporto di Bin Laden e del Pakistan sobilla la rivolta islamica nell’Asia centrale e offre denaro, armi e volontari alla guerriglia cecena. Il vertice, di ieri, del fronte antitalebano (Iran, Russia, Tagikistan e Uzbekistan, oltre alla forze di Massoud) potrebbe sancire di fatto un “via libera” ai raid statunitensi e preparare le mosse degli alleati. Anche la Cina ieri ha fatto capire che non si opporrebbe a simili iniziative. Più difficile è colpire il Pakistan e alcune zone dell’Arabia Saudita. Il regime militare di Islamabad schiera due brigate in Afghanistan per combattere la resistenza di Massoud e sostiene il terrorismo attivo nel Kashmir e nelle repubbliche asiatiche ex sovietiche, ma dispone di forze militari efficienti e di un arsenale nucleare. L’appello lanciato ieri dal segretario di Stato Colin Powell al governo pakistano affinché collabori in modo totale con Washington sembra un ultimatum, rafforzato del resto dal recente avvicinamento di Bush all’India.
Il fronte siriano è pericoloso
Ancora più delicata è la questione saudita, aperta dal fatto che alcuni dirottatori sarebbero piloti delle Saudi Airlines inviati negli Stati Uniti per l’addestramento. S’inserisce in un contesto di difficoltà dei rapporti tra le monarchie del Golfo Persico (con l’eccezione del Kuwait) e Washington per la politica statunitense nei confronti dell’Iraq e della crisi israelo-palestinese. Da tempo, i Servizi statunitensi e russi sottolineano il sostegno fornito da “ambienti sauditi” alla guerriglia cecena che mirerebbe a creare il caos nelle nuove aree petrolifere caucasicoasiatiche il cui sfruttamento penalizzerebbe i paesi della penisola arabica. Un’altra regione sotto osservazione è il Libano meridionale, dove i santuari di Hezbollah e della Jihad operano protetti dalle forze siriane e dove è molto attivo Hahmad Mughnie, “l’ingegnere”, considerato molto pericoloso. Un’operazione aerea e missilistica (ma non è escluso l’impiego d’incursori) potrebbe partire dalle portaerei e dalle basi Nato e statunitensi in Grecia e in Italia e da quelle britanniche a Cipro, mentre il coordinamento con Israele garantirebbe la massima efficacia dell’attacco. Qui però il rischio che l’azione provochi un’escalation è concreto. Attaccare il Libano significa colpire la Siria e spingerla ad avvicinarsi ulteriormente all’Iraq che non ha mai lesinato aiuti al terrorismo ed è sospettato di essere stato coinvolto nella preparazione dell’attentato al cacciatorpediniere Cole nel porto di Aden, compiuto da uomini di Al Qaida. I movimenti legati a Bin Laden godono di coperture in molti paesi arabi. Washington ha la possibilità di colpire con efficacia più obiettivi contemporaneamente ma gli analisti del Dipartimento della Difesa non sono ancora in grado di valutare le conseguenze di una simile rappresaglia. Gli europei auspicano una risposta limitata che eviti un lungo conflitto e le reazioni del terrorismo.
La linea vaticana
Un viaggio in Kazakhstan e una missione a Teheran, la Chiesa non parla di “atti di guerra”
Giovanni Paolo II è intervenuto tre volte sulla tragedia che ha colpito gli Stati Uniti. L’11 settembre, a caldo, con un telegramma personale di cordoglio a George W. Bush. Il 12 con un’udienza generale senza il previsto commento a un salmo biblico, ma dedicata interamente all’orribile episodio. Ieri ricevendo le lettere credenziali del nuovo ambasciatore americano presso la Santa Sede, Jim Nicholson. In tutti questi interventi il Papa ha condannato gli “attacchi terroristici” (non ha parlato mai di “atti di guerra”), ha pregato per le “inermi vittime”, ma soprattutto ha più volte implorato e chiesto di pregare che ora non prevalga “la spirale dell’odio e della violenza”, la “vendetta” e “lo spirito di ritorsione”. In Vaticano insieme all’orrore per la strage si respira infatti anche un’aria di preoccupazione per l’eventualità di una escalation incontrollata della crisi. Lo stesso cardinale Edmund C. Szoka, statunitense e presidente della pontificia Commissione dello Stato della Città del Vaticano, ha dichiarato che quella della vendetta “è una tentazione, ma – ha subito aggiunto – noi americani preferiamo sempre la via della legge, della giustizia, più che una rappresaglia contro obiettivi che è difficile immaginare. Si può forse distruggere un intero paese nemico degli Stati Uniti? […] Penso sia desiderio primario degli americani trovare i responsabili di questo orrore e vederli processati”.
La voce del Papa non è rimasta isolata nel mondo cattolico, dove si è registrata una reazione massiccia, eccezionale, che ha coinvolto cardinali ed episcopati. In Italia, ad esempio, porporati come Camillo Ruini a Roma, Carlo Maria Martini a Milano, Dionigi Tettamanzi a Genova, Severino Poletto a Torino, Marco Cé a Venezia, Giacomo Biffi a Bologna, Salvatore De Giorgi a Palermo hanno svolto e convocato veglie di preghiera, oppure hanno rilasciato dichiarazioni. Ma hanno voluto dire la loro anche i cardinali di Londra, Parigi, Buenos Aires, Lima… Conferenze episcopali di mezzo mondo, da quella australiana a quella ungherese, hanno inviato messaggi di compartecipazione al dolore degli americani. Associazioni ecclesiali, come l’Azione cattolica, hanno espresso pubblicamente la loro costernazione. E persino il patriarca latino di Gerusalemme, il palestinese Michel Sabbah ha scritto: “Condanniamo questi orrendi crimini e siamo scioccati e profondamente rattristati nel guardare l’estensione della catastrofe inflitta a persone innocenti, che è stata causata da orribili atti di terrorismo”. I toni di questi interventi sono generalmente in linea con le parole espresse dal Papa. Da una parte piena condivisione al dolore del popolo americano, dall’altra la preoccupazione che possa innescarsi una spirale perversa di ritorsioni e vendette i cui limiti sarebbero poi difficilmente circoscrivibili. Anche se non sono mancate sfumature particolari: il cardinale Biffi ha pregato anche “perché la cristianità trovi la strada giusta per la propria sopravvivenza”, ricordando, forse non a caso, che proprio il 12 settembre ricorreva l’anniversario della battaglia di Vienna, dove nel 1683 gli eserciti cristiani sconfissero quello turco, bloccando di fatto l’invasione ottomana del Vecchio continente.
Il messaggio di Alessio II
La tradizione diplomatica della Santa Sede è attenta a rifuggire una completa identificazione della Chiesa con l’Occidente, così come si guarda bene dall’interpretare questi atti terroristici come momenti di una guerra cultural-religiosa tra cristianità e Islam. Anzi. Ieri la Sala stampa ha divulgato una dichiarazione congiunta della Commissione mista islamico-cattolica in cui si “condanna l’orribile atto di terrorismo” e si dichiara che “ogni atto di violenza non è la strada per realizzare la pace nel mondo. Come leader religiosi noi vogliamo sottolineare che la giustizia e il rispetto reciproco sono la vera base per la pace”. Sempre ieri Avvenire, che pure titolava “Un attacco contro tutto l’Occidente”, ha pubblicato un editoriale dello storico Franco Cardini dal titolo significativo (“Uno spettro si aggira però niente abbagli”), che affermava: “Nulla sarebbe più ingiusto, più insensato e più criminale dell’incitamento indiscriminato a un’interpretazione dei fatti dell’11 settembre nel senso dello scontro ‘tribale tra libertà, civiltà e modernità da una parte, fanatismo islamico dall’altra”.
Nei prossimi giorni sono in programma due appuntamenti, fissati da tempo, che metteranno in evidenza il livello di dialogo tra Vaticano e importanti realtà islamiche. La visita del Papa in Kazakhstan (22-25 settembre) e, dal 19 al 22 settembre a Teheran, una riunione di dialogo islamico-cattolico cui parteciperà il cardinale africano Francis Arinze, presidente del pontificio Consiglio per il dialogo inter-religioso. Reazioni agli attacchi agli Usa sono giunte anche da altri leader cristiani. Significativa quella del patriarca ortodosso russo Alessio II che condannando “gli autori di questo crimine barbarico” ha ricordato che “centinaia di persone innocenti, inclusi membri del clero ortodosso e musulmano, sono stati brutalmente uccisi in Cecenia” e che “santuari ortodossi sono ancora distrutti e cittadini pacifici sono ancora esposti al terrore in Kosovo e in Macedonia”.
15 settembre 2001
Prima pagina
Come affrontano la nuova guerra le tribune dell’opinione pubblica americana
I pacifisti a oltranza, e ce ne sono nei grandi giornali americani, stavolta hanno taciuto, troppo forte la botta per sentirsela di operare niente di più che sottili distinguo. Probabilmente troppo forte per non suscitare autentici ripensamenti anche su posizioni che sembravano lecite fino a martedì scorso. E’ onesto nell’ammetterlo il liberal New York Times, che si schiera con le intenzioni di George W. Bush. Di più, in un editoriale che senza nascondersi è titolato “An America at war”, un’America in guerra, precisa che l’Amministrazione Clinton aveva furbescamente evitato di affrontare il problema dei governi complici e finanziatori del terrorismo con una scelta tipicamente clintoniana, combattendo con l’Fbi i criminali, a uno a uno, individui senza nessuno alle spalle. In alcuni casi, come nel bombardamento del destroyer Cole l’anno scorso nello Yemen, gli Usa si erano così ritrovati come partner un governo che aveva interesse a coprire alcuni dei sospettati. In altri, come per l’Iraq di Saddam Hussein o l’Afghanistan dei Taliban, sanzioni inefficaci erano malamente riuscite a camuffare l’assenza di una strategia seria e la scarsa determinazione a perseguirne una. E’ un bel cambiamento nell’analisi di un quotidiano che sempre ha predicato la politica delle sanzioni come forma estrema, che spesso quelle sanzioni le ha criticate per crudeltà nei confronti dei popoli colpiti. E’ anche una critica feroce del metodo Clinton, che spunta le ali a chi in questi giorni cercasse di usare contro Bush i risultati di tregua relativa ottenuti dal suo predecessore con molti compromessi. L’attacco al paese mette in luce i danni delle scelte passate, richiede principi chiari di politica, richiede risposta pronta contro i governi complici.
Per il Los Angeles Times, però, l’azione militare è solo una parte di un piano completo per contenere, se non eliminare, il terrorismo e la retaliation, la rappresaglia, serve a poco. E’ l’effetto domino che si deve evitare, coltivando relazioni diplomatiche, facendo accordi, mettendo insieme l’intelligence di tutti i paesi possibili. Perciò gli Usa devono rispondere militarmente dopo aver ben riflettuto sulle reazioni possibili, ma devono pure identificare, arrestare, estradare o deportare i terroristi, insomma svuotare la rete che è fatta di molti clan familiari, non solo di quello di Osama bin Laden, che è sicuramente radicata all’interno degli Stati Uniti. Queste scelte cambiano lo stile di vita del nuovo mondo, può essere la fine dell’America aperta al mondo, multietnica e sicura, ma né il NYT né altri quotidiani sembrano preoccupati. Al contrario, il Washington Post chiede nuove regole e controlli ferrei ovunque. E mano dura con i finti alleati. Il Pakistan si deve decidere, o è amico dell’America o è amico del terrore. Si deve decidere, e se vuol continuare a usare i militanti dell’Islam contro il vecchio nemico, l’India, allora sappia che sarà dichiarato nazione terrorista e andrà rapidamente in bancarotta una volta che Washington ritiri gli aiuti economici. Questo vale anche per gli amici sauditi, è in Arabia Saudita che viene ospitata la fortuna personale di Osama, è lì che ci sono sostanziosi finanziatori della guerra santa.
Ce la farà Bush a creare la grande alleanza?
Ce la farà George W. Bush a costruire la coalizione mondiale contro il male, quella che suo padre mise insieme nel Golfo, e pure qualcosa di meglio di allora, perché nessuno degli alleati, soprattutto gli europei, dovrà vacillare? Per il WP non sarà facile perché il presidente e i suoi consiglieri si erano dedicati finora a disegnare l’immagine di un’America indipendente e più distaccata, soprattutto in materia di difesa, con la sola eccezione del buon rapporto con il russo Putin, che ora si deve mettere all’incasso. Ma ce la deve fare, e trarre lezione da questa esperienza. Tanta unanimità sulla forza della risposta spunta le armi a giornali tradizionalmente vicini all’Amministrazione, come il Wall Street Journal. Il tono in questi giorni era comune. Ma il WSJ aggiunge qualcosa sull’economia, una riflessione su come evitare la recessione e guai tremendi al libero mercato. Occorre una vittoria militare e politica chiara. Una tiepida risposta avrebbe effetti devastanti sull’economia americana. E agli scenari apocalittici di questi giorni ne aggiunge uno peggiore: il prossimo attacco. Se avranno i missili balistici, i terroristi li useranno, possono devastare città come New York in un solo istante. Lo scudo spaziale è l’unica risposta all’alzarsi della sfida, e bene farebbero i senatori liberal, come Patrick Leahy del Vermont, a smettere di prendere in giro ipotesi che lui definisce fantascientifiche ma che sono invece pericolo reale: la guerra biologica, germi che si trasportano e si diffondono contro ogni controllo, missili cruise lanciati da sottomarini offshore.
Imbroglio pakistano
Musharraf non può dire “no” a Bush ma non vuole rompere con i Talebani amici di Bin Laden
Di notte, quando le città afghane sono avvolte nel buio e nessuno circola per strada, transitano soltanto le misteriose colonne di camion militari senza insegne. Provengono dal vicino Pakistan, carichi di munizioni o di benzina, e sono la vena giugulare del rifornimento all’esercito talebano, in lotta contro l’opposizione armata asseragliata nel Nord-est del paese. Nel rapporto globale sul terrorismo del Dipartimento di Stato americano è confermato l’appoggio di Islamabad a Kabul, che si estende anche a “finanziamenti, assistenza tecnica e consiglieri militari”. Per questo motivo l’uomo forte del Pakistan, il generale Pervez Musharraf, ora si trova in grave imbarazzo e in difficoltà di fronte alle richieste americane di poter sorvolare liberamente lo spazio aereo di Islamabad e di sigillare le frontiere con l’Afghanistan, dove vive, protetto dal regime, Osama bin Laden.
Per non parlare della richiesta di collaborazione della Cia al potente Isi, il servizio segreto militare pakistano, che ha lavorato duro e a lungo per potenziare i talebani. Il comandante degli antifondamentalisti, Ahmad Shah Massoud, che sarebbe morto ieri a causa delle ferite di un attentato suicida di terroristi arabi, lanciava continuamente avvertimenti contro il coinvolgimento nella guerra civile del Pakistan. Probabilmente era esagerato sostenere che interi reparti di Islamabad combattevano al fianco dei talebani, ma esperti militari pakistani sono stati di certo utilizzati in campi specifici come l’artiglieria o le comunicazioni. Secondo i servizi segreti occidentali alcune unità pakistane del “Gruppo servizi speciali”, composto da 2800 commandos super addestrati, sono stati impiegati in battaglie strategiche, come la caduta della città di Talaqan, conquistata dai talebani lo scorso anno. Del resto le mire del Pakistan, potenza nucleare, sull’Afghanistan non sono nuove.
L’avvento dei talebani, spuntati nel ’94, coincide con la scadenza del centenario trattato, firmato nel 1893 dal re di Kabul Abdurrahman e da Lord Durand, che segnava i confini fra Afghanistan e l’impero britannico lungo il mitico Kyber pass e la turbolenta zona tribale autonoma, ancora esistente, della North-West frontier Province. Confine ereditato dal Pakistan nel 1947, ma considerato ingiusto. Lo Stato maggiore di Islamabad e in particolare il ministro dell’Interno ai tempi del premier Benazir Bhutto, Nasrullah Babaar, decise, grazie ai talebani, di espandere l’influenza pakistana sull’Afghanistan alla scadenza del secolare trattato. Inoltre il nocciolo originario degli studenti guerrieri si è formato nelle Madras, le scuole islamiche spuntate come funghi nel vicino Pakistan e frequentate da giovani profughi afghani, le cui famiglie lasciarono il paese d’origine fin dall’invasione sovietica del ’79. Molte delle Madras si trovano nella zona tribale attorno a Peshawar, una specie di territorio autonomo in mano ai fondamentalisti.
Intanto Osama si muove
Musharaff, prima di deporre con un golpe il premier Sharif, aveva gestito la crisi del Kashmir, e sa che gli americani lo accusano di permettere “a gruppi terroristici di raccogliere fondi e arruolare quadri in Pakistan”. Si tratta dell’Harakat ul Mujaheddin di Fazlur Rahman Khalil e degli uomini dell’avvocato Bakt Zemin, in prima linea in Kashmir, come Maulana Masood Azhar, che ha fondato il gruppo scissionista Jaish-e-Mohammed. Gli adepti di quest’ultimo organizzarono il dirottamento di un aereo indiano alla fine del 1999, poi atterrato in Afghanistan. I dirottatori ottennero la liberazione del loro leader e non sono mai stati arrestati dai talebani. Gli uomini di Khalil e Zemin si trovarono nei campi di addestramento di Bin Laden, colpiti nel ’98 dalla rappresaglia americana per gli attentati alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania. L’intreccio regionale è reso ancora più esplosivo dai partiti religiosi pakistani che vorrebbero talebanizzare il paese. Il più filo Kabul è lo Jamiat Ulema- i-Islami, e in particolare una sua fazione guidata da Maulana Sami Ul Haq, che mercoledì ha annunciato di voler “invitare i leader religiosi a invocare la Guerra santa se gli americani attaccassero l’Afghanistan”. Non a caso, ieri, i talebani hanno annunciato vendetta se fossero colpiti, facendo crollare le borse. Musharraf ha promesso al segretario di Stato Colin Powell, massima collaborazione, anche perché il Pakistan non può permettersi di subire le conseguenze, anche soltanto economiche, di un “no” a Bush.
Ma il generale in realtà ammicca, trovandosi fra due fuochi. Per esempio, pur inviando l’esercito al confine con l’Afghanistan, non ha sigillato la frontiera come chiedeva Washington. Inoltre si prepara al peggio: ieri ha convocato i vertici delle Forze armate e sono rimasti chiusi per ore aeroporti importanti, come quello di Islamabad, per poco chiari spostamenti militari. Fonti del Congresso sostengono che gli americani potrebbero utilizzzare le postazioni dell’opposizione del defunto Massoud, come la base aerea di Bagram, vicina a Kabul. L’ipotesi è azzardata, ma qualsiasi intervento contro l’Afghanistan rischia di vanificare il progetto pakistano di “espandersi” fino all’Asia centrale, quasi raggiunto, grazie ai talebani. Intanto Bin Laden, primo obiettivo degli Stati Uniti, si muove. Le sue Nissan blindate, secondo i Servizi russi, da almeno due giorni non si vedono più a Kanda’ar. Il capo di Al Qaida, “la Base” del terrorismo islamico, si è rifugiato sulle montagne.
17 settembre 2001
Berlusconi & Blair
Il Cav. a Londra parla di guerra, s’intende con Downing Street e corregge lo scettico Martino
Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, prima ancora d’incontrare il premier britannico, ieri a Londra, aveva detto che “c’è piena sintonia con Blair sull’analisi della situazione e sulla reazione” dopo l’attacco agli Stati Uniti. Come ha chiesto il segretario di Stato americano Colin Powell e come hanno ricordato il ministro degli Esteri italiano, Renato Ruggiero, e quello della Difesa britannico Geoff Hoon, l’obiettivo delle cancellerie occidentali è quello di creare una coalizione contro il terrorismo, “la più grande possibile”, a partire dal voto della Nato sull’articolo 5 del Trattato: l’attacco agli Stati Uniti è un attacco all’Alleanza, che ora deve agire. Quello di ieri è stato il primo summit bilaterale tra due leader dell’Unione, dopo l’11 settembre, e il primo passo in questa direzione. Londra – “Old friends, best friends”, ha scritto l’Economist – ha un ruolo preciso al fianco di Washington.
Un suo staff militare di comando già collabora con i vertici delle Forze armate statunitensi. Assieme stanno pianificando le prime iniziative. Nel Golfo sono già dislocate una decina di navi da guerra britanniche, circa 50 aerei e due sottomarini con missili cruise. Anche Australia e Canada hanno confermato la disponibilità a contribuire direttamente, anche se in misura molto minore, alle operazioni. Blair ha usato la parola “guerra”, ha detto che, con almeno trecento morti britannici, l’attacco di martedì va considerato come la più grave azione terroristica condotta anche contro il Regno Unito. Forte dell’intesa bipartisan tra il premier e il nuovo leader dei Tory Iain Duncan Smith, e nonostante la cautela di singoli esponenti laburisti e liberaldemocratici, la Gran Bretagna farà la sua parte subito. Berlusconi e Blair negli ultimi mesi hanno condiviso linee di politica estera più vicine a quelle dell’Amministrazione Bush rispetto a Parigi e Berlino. Nel lavorio politico-diplomatico teso a costruire la grande coalizione, il ruolo che può esercitare l’Italia è almeno in parte differente da quello della Gran Bretagna. Anche Berlusconi ha usato ieri con Blair le parole “new war”, nuova guerra, spiegando che non si tratta di un conflitto contro altre religioni. Gli obiettivi del premier britannico e del collega italiano sono comuni: individuare nuovi strumenti contro possibili attacchi, garantire una vasta partecipazione internazionale all’iniziativa, trovare i colpevoli e assicurarli alla giustizia. In questa prospettiva la priorità è garantire solidarietà, e consenso, agli Stati Uniti.
Nella lotta contro il terrorismo, ha detto Berlusconi a Blair, bisogna fare un salto di qualità, con un migliore coordinamento tra i Servizi d’intelligence, e ripensare i metodi d’azione dei Servizi segreti, soprattutto in paesi, come la Gran Bretagna e l’Italia, in cui ci sono gruppi, santuari, vicini ai terroristi. “Quella di ieri – spiega una fonte diplomatica di Parigi – è stata quasi una riunione per dividersi i compiti” e per preparare i prossimi vertici europei: Berlusconi vedrà Gerhard Schroeder il 26 settembre, e prima di quel giorno il cancelliere tedesco avrà già incontrato Blair (domani) e il segretario generale della Nato lord George Robertson (giovedì); mentre venerdì a Bruxelles ci sarà un summit europeo straordinario sul tema della lotta al terrorismo internazionale. Il presidente del Consiglio, in qualità di presidente di turno del G8, ha anche riproposto a Bush l’idea di organizzare un G8 straordinario. Il presidente americano ha risposto che ci sta pensando. Una simile riunione è possibile in futuro, magari a New York, come sostiene Ruggiero, la prossima settimana in occasione dell’apertura dell’Assemblea generale dell’Onu.
Verso un voto delle Nazioni Unite
L’obiettivo del medio-lungo periodo però è creare e attivare la grande coalizione contro il terrorismo, magari anche con un voto delle Nazioni Unite. Londra sarà da subito più esposta dal punto di vista militare, mentre l’Italia, che pure metterà a disposizione basi e truppe, ha un ruolo più attivo dal punto di vista diplomatico per convincere gli europei più cauti, come Olanda, Belgio, Svezia, Francia (nel senso del governo, meno dal punto di vista dell’Eliseo), in parte Berlino: a partire dal voto della Nato, questa è la tesi, si può attuare una campagna internazionale contro il terrorismo, con Russia e Cina, il cui voto è indispensabile all’Onu. Ma anche paesi del Medio Oriente come l’Egitto, l’Iran e altri, con cui l’Italia può agire da interlocutore, saranno coinvolti nelle trattative. La nostra diplomazia – lo spiega bene il ministro Ruggiero – tende a sottolineare e lavora per rafforzare l’intesa tra Nato, Stati Uniti ed Europa. Nella divisione dei ruoli, l’Italia vuole contribuire a raccogliere il maggior numero di alleati, pronti a collaborare nella rete dell’intelligence. Un lancio della France Press ha rilanciato ieri in America, provocando irritazione, le dichiarazioni di Antonio Martino, ministro della Difesa, scettico sull’uso del termine “guerra” e deciso nell’escludere per ora un uso attivo dell’esercito italiano. Le dichiarazioni di Berlusconi sembrano aver chiuso il caso prima che si aprisse, correggendo quelle equivoche del ministro. Il quale, come ci si aspettava da lui, ha poi dichiarato che l’Italia farà quanto necessario, compreso l’invio di aerei e truppe.