editoriali
Il trollaggio sovietico di Vladimir Putin
Mosca ci accusa di violare i diritti ma le elezioni non democratiche sono le sue
Non ci saranno osservatori europei. Non ci saranno webcam nei seggi puntate sulle urne. Non ci saranno ong e media indipendenti. Non ci saranno, soprattutto, i candidati critici verso il Cremlino, ai quali è stato impedito di avvicinarsi alle urne. Non ci sarà, molto probabilmente, nemmeno il riconoscimento di “elezioni libere e democratiche” dalla comunità internazionale, come avviene già da due decenni per i risultati che emergono dalle urne della vicina Bielorussia. Dieci anni fa, le manifestazioni contro i brogli elettorali fecero vacillare il Cremlino e incoronarono Alexei Navalny come volto della protesta. Oggi, Navalny è in carcere, i suoi siti che propongono il “voto intelligente” sono oscurati, e Vladimir Putin non appare più minimamente preoccupato di (almeno) fingere di far parte della comunità delle democrazie. La campagna elettorale per i tre giorni di voto alla Duma sembra sempre più ambientata in Unione sovietica, con Putin che risponde alle critiche occidentali rinfacciando agli Stati Uniti la prigione di Guantanamo, mentre il capo della sua diplomazia Sergei Lavrov – numero due della lista del partito del potere Russia Unita – tira fuori un classico dei tempi di Brezhnev come la condizione degli indiani d’America, “che sono meno liberi degli orsi russi, perché relegati nelle riserve”. Era il cosiddetto “e-da-voi-invece-linciano-i-negri”, un trucco retorico che Mosca utilizzava essenzialmente sul mercato interno, in un’epoca in cui i russi non potevano viaggiare né vedere film e giornali esteri. Oggi, appare l’espediente stanco di un regime in crisi, che vorrebbe portare alle urne soltanto i suoi elettori più nostalgici, e che sta vivendo l’incombenza elettorale con un fastidio che non riesce a dissimulare.
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