Editoriali
Che fine ha fatto il Giappone?
Il voto della terza economia del mondo e l’alleanza per contenere la Cina
Le elezioni generali di una potenza globale di solito fanno notizia sui giornali internazionali. Se ne parla perché il risultato del voto può cambiare alleanze e modificare equilibri. Le elezioni in Giappone, terza economia del mondo, non hanno fatto notizia. E neanche il fatto che Tokyo, per via della fine della campagna elettorale e del voto di domenica, abbia mandato sia al G20 sia alla Cop26 una delegazione striminzita e di basso livello. Ieri la formazione del primo ministro Fumio Kishida, il Partito liberal democratico, ha rivinto la maggioranza del Parlamento e si è assicurata una “maggioranza stabile”.
È una non-notizia il fatto che i conservatori giapponesi siano ancora stabilissimi al governo, e siano sopravvissuti alla leadership di Yoshihide Suga, a una pandemia e alle Olimpiadi più contestate della storia. Da tempo il sistema democratico giapponese è criticato da molti punti di vista: la leadership è scelta dal partito e perfino gli elettori, che vanno a votare sempre di meno (l’affluenza alle urne domenica è stata del 55,9 per cento, la terza più bassa sin dal Dopoguerra), preferiscono la stabilità del partito. Nel frattempo, l’opposizione del Partito democratico è non pervenuta.
Se la prima conseguenza di questa strana situazione democratica è un senso di apatia da parte dei cittadini, la seconda è che il Giappone non si comporta più da terza economia del mondo. Il più importante alleato dell’America nel Pacifico, la potenza economica una volta temuta da Washington quasi quanto oggi è temuta Pechino, torna a essere concentrata sulla politica interna e perde l’attivismo diplomatico che un tempo contraddistingueva il governo di Shinzo Abe. Se adesso i primi ministri giapponesi ricominciassero a cambiare una volta l’anno per via di guerre intestine al Partito liberal democratico, la grande alleanza dei paesi democratici che vogliono contenere la Cina perderebbe una delle sue pedine fondamentali.
I conservatori inglesi