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Un anno fa il colpo di stato in Myanmar: un racconto per immagini

Le elezioni contestate, la presa del potere dell'esercito, l'arresto di Aung San Suu Kyi e le proteste di piazza: un anno di repressione della democrazia in Myanmar, nel silenzio occidentale e con il tacito sostegno di Russia e Cina

Redazione

È trascorso un anno dal colpo di stato con cui le forze armate del Myanmar scioglievano il parlamento e deponevano Aung San Suu Kyi, fresca vincitrice delle elezioni presidenziali. Il paese rimpiombava così nell’incubo della dittatura militare dopo una parentesi democratica durata dieci anni. 

   

All’indomani delle elezioni del novembre 2020 la National League for Democracy (NLD) guidata dal premio Nobel per la pace si impone in maniera schiacciante sul partito appoggiato dalle forze armate, conquistando l’83 per cento dei seggi. I risultati delle urne però non vengono riconosciuti dal Tatmadaw – l’esercito birmano, che gestisce anche le forze di polizia e la sicurezza interna - che denuncia casi di irregolarità in varie parti del paese. Ad alimentare la tensione si aggiunge anche l’intenzione di Suu Kyi di intervenire nella revisione della Costituzione, scritta nel 2008 dal Tatmadaw e che riserva molti privilegi alle forze armate, tra cui quello di avere sempre garantito il 25 per cento di seggi in Parlamento e di poterlo sciogliere in casi di calamità nazionale.  

  

Proprio sfruttando l’emergenza Covid in corso nel paese, il primo febbraio 2021 i militari occupano i luoghi del potere e arrestano la “Signora” e il presidente Win Mynt, mettendo a capo dell’esecutivo il generale Min Aung Hlaing. Seguono settimane di forte tensione con moti di protesta che si diffondono in tutto il paese: l’a repressione dell'esercito è dura: più di mille civili morti e centinaia di oppositori politici arrestati. Tra i più colpiti dal cambio di governo c’è soprattutto la minoranza musulmana dei rohingya, che vede aumentare la persecuzione nei suoi confronti. A livello internazionale arrivano le condanne dal mondo occidentale mentre sono più ambigue le posizioni di Cina e Russia, le quali bloccano la risoluzione Onu che avrebbe dovuto imporre sanzioni economiche al Myanmar.

   

Dopo mesi senza sue notizie, Aung San Suu Kyi è ricomparsa agli occhi del mondo lo scorso maggio, in tribunale, per difendersi dalle accuse di broglio elettorale, violazione delle restrizioni anti-Covid e "importazione illegale di walkie talkie". Il processo si è concluso a dicembre 2021 e ha sancito la condanna a 4 anni di carcere per la “Signora”, che a 75 anni si ritrova ad essere nuovamente il simbolo della resistenza democratica del paese: “Il nostro partito è stato creato dal popolo ed esisterà finché esisterà il popolo” ha affermato di fronte ai giudici militari.

 

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