editoriali
La fragile tregua del Tigrè
È stato trovato un accordo con il governo etiope. Ma è l’Eritrea il problema
L’accordo raggiunto a Pretoria che pone fine alla guerra tra il governo etiope e la regione ribelle del Tigrè è un’ottima notizia. Quello tra l’esercito di Addis Abeba e il Fronte popolare di liberazione del Tigrè (Fplt) era uno dei conflitti in corso con il più ampio dispiegamento di truppe. Le ostilità, seppur con l’intermezzo di una tregua presto naufragata, duravano da due anni ed erano nate dai contrasti tra il governo centrale del premier Abiy Ahmed Ali, che nel 2019 è stato insignito, forse un po’ prematuramente, del Nobel per la Pace, e le autorità della regione settentrionale del Tigrè.
I tigrini, che abitano quell’area, sono un’etnia minoritaria nel contesto dell’Etiopia (il 6 per cento circa della popolazione complessiva) ma dal 1991 al 2018 hanno controllato politicamente il paese africano. Questo aiuta a spiegare l’asprezza dei rapporti tra il Fplt e quel governo centrale che il partito tigrino ha avuto così a lungo tra le sue mani prima di perderne la regia.
Bene l’accordo, dunque. Ma nelle guerre africane vanno sempre considerate le triangolazioni. In questo caso, quella con l’Eritrea, le cui truppe stanno a loro volta combattendo il Fplt e occupano tuttora porzioni del Tigrè, in cui hanno commesso varie atrocità. Il fatto che l’Eritrea non abbia preso parte ai colloqui in Sudafrica da cui è scaturito l’accordo di pace è quindi un brutto presagio. Tanto più che, come spiega a Bloomberg Harry Verhoeven, un esperto di Eritrea che insegna alla Columbia University, il dittatore di Asmara, Isaias Afewerki, è un tipo “disposto a sopportare livelli di disagio straordinari: isolamento internazionale, sanzioni, vicini ostili, irritazione degli Stati Uniti”. E cioè esattamente tutto ciò che si attirerebbe addosso se vestisse i panni dell’oste senza il quale hanno fatto i conti i negoziatori del governo etiope e del Fplt.