Editoriali
La riforma di Israele sulla Corte suprema
Fra leciti timori per le minoranze e attivismo giudiziario, la scelta di Bibi
Israele non ha una Costituzione scritta, quindi le sentenze del suo finora potentissimo “Bagatz”, la Corte suprema, sono state una sorta di carta costituzionale. Il nuovo governo di Benjamin Netanyahu col ministro della Giustizia Yariv Levin ha annunciato una riforma che consentirebbe di fatto al Parlamento di annullare una decisione della Corte con un voto a maggioranza semplice, aumentando il potere dei funzionari eletti sui tribunali. I critici evocano la Corte costituzionale polacca e il caso ungherese, con la stretta degli esecutivi di Visegrad sulle rispettive corti più alte. La gente è scesa per strada a Tel Aviv e l’ex presidente della Corte suprema Aharon Barak ha definito Levin un “criminale”.
Da anni la destra è mobilitata contro quello che negli anni ’90 Barak considerava il necessario “attivismo legale” in base al quale le Corti assumevano il potere di rovesciare leggi approvate dalla Knesset (come nel caso delle politiche di sicurezza e antiterrorismo nei Territori palestinesi). E intanto cresceva la contro-reazione politica israeliana, che parlava di “golpe giudiziario”.
In questa prospettiva, è importante che la coalizione di governo riconosca il fatto che queste riforme giudiziarie sono estremamente rilevanti e delicate, per qualcuno possono modificare il carattere dello stato di Israele e l’equilibrio tra i diversi poteri dello stato. Non sarà facile trovare quell’equilibrio, fra il diritto della maggioranza eletta a governare, del popolo a essere rappresentato e delle minoranze, della società civile e dei giudici di portare istanze che a suon di plebisciti non si farebbero mai sentire. Ma è anche la forza d’Israele, essere l’unica democrazia da Casablanca a Mumbai. E non è poco.