Editoriali
L'Unione europea fa la vaga sulle “stazioni di polizia” della Cina
La Commissione dà tecnicismi, "gli stati membri sono responsabili dell'ordine pubblico", ma non una linea. E confrontarsi da soli con la seconda economia al mondo non è semplice
La Commissione europea venerdì scorso ha risposto a un’interrogazione presentata tre mesi fa dalla vicepresidente del Parlamento europeo, Pina Picierno, sulle “stazioni di polizia” non ufficiali della Cina sul territorio degli stati membri. La risposta della Commissione è stata piuttosto vaga: Ylva Johansson, commissaria per gli Affari interni, scrive che sono gli stati membri “responsabili del mantenimento dell’ordine pubblico e della salvaguardia della sicurezza interna sul proprio territorio”, e poi che la Commissione sostiene l’applicazione “del principio di non respingimento in linea con il diritto internazionale umanitario” per i casi di rimpatri forzati di cittadini cinesi.
In linea di principio è pacifico che “nessuno dovrebbe essere rimpatriato in un paese in cui potrebbe subire torture, pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti” – questo principio si applica a tutti, sempre, sottolinea la Commissione. Ed è altrettanto pacifico che sulla sicurezza interna la giurisdizione sia dei singoli stati. Ma Picierno, in linea con una postura attenta alla ridefinizione delle relazioni con la Cina di gran parte del Partito democratico, pone una questione più politica che tecnica, alla quale la Commissione non risponde. Per esempio su un’azione coordinata da Bruxelles e supportata da azioni concrete anche da parte dell’Europol.
Perché è evidente quanto sia difficile, per un singolo paese, ridisegnare i rapporti con Pechino alla luce di quanto già avvenuto, per esempio con la Lituania, in termini di ritorsioni e azioni coercitive cinesi. L’Ue dice semplicemente: è vostra responsabilità, ma affrontare la seconda economia da soli non è facile. L’ha scoperto bene Giorgia Meloni, arrivata alla presidenza del Consiglio da anticinese di ferro, che ancora non ha chiarito se rinnoverà o no l’accordo sulla Via della Seta con la Cina, in scadenza quest’anno. Non si tratta di disaccoppiarsi, di chiudere al business con Pechino, ma di porre delle chiare linee rosse invalicabili a protezione della nostra democrazia e della nostra sicurezza.