editoriali
La Corte d'appello inglese boccia il governo: no ai migranti in Ruanda
Secondo i giudici (due su tre) il paese africano non è “un paese terzo sicuro”, nonostante le rassicurazioni del presidente Paul Kagame
I migranti in Ruanda non si possono mandare, è illegale. Lo ha stabilito la Corte d’appello britannica, infrangendo i sogni di gloria della ministra dell’Interno Suella Braverman, che sperava di spedire chi sbarca sulle coste del paese in una spartana ma costosissima facility ruandese – 140 milioni di sterline pagati finora per niente – dove gestire le pratiche per ottenere, eventualmente, lo status di rifugiato e farsi una vita in Ruanda. Il governo di Rishi Sunak farà appello alla Corte suprema, visto che al centro del decreto Immigrazione c’è la promessa di fermare le imbarcazioni con un programma pilota, della durata di cinque anni, così distopico da essere capace, nella speranza del governo, di far passare alla gente la voglia di partire.
Il verdetto è stato raggiungo da due giudici contro tre: il Ruanda non è “un paese terzo sicuro”, nonostante le rassicurazioni del presidente Paul Kagame, uno che sta cercando di trovare un po’ di consenso internazionale tendendo la mano ai governi alle prese con il problema dell’immigrazione illegale con una soluzione prêt-à-porter, tra l’outsourcing e il mercenario, ossia un centro a Kigali dove ospitare un migliaio di persone e sbrigare le pratiche burocratiche per il riconoscimento dello status. Ma sul fronte dei diritti umani non dà grandi garanzie – le ong e i diplomatici tendono a concordare – e Israele, che ha mandato quattromila sudanesi e eritrei in Ruanda su base volontaria tra il 2014 e il 2016, ha rinunciato a questo schema informale in quanto inutile, dannoso e costoso. Si parlava di persone rimandate nei paesi d’origine, col rischio di morte o tortura, di persone che poi hanno rifatto il viaggio, più disperate di prima, riuscendoci. O che sono finite nelle mani dello Stato islamico, dei trafficanti. Il tutto per avere l’illusione di controllare una situazione difficile – gli arrivi sono troppi, l’opinione pubblica preme – che rischia di aggravarsi.