editoriali
L'errore strategico degli Stati Uniti con Tripoli
Prima di normalizzare le relazioni diplomatiche con Israele, serve normalizzare il rapporto con la Libia. Il fallimento dell'azione diplomatica americana
Alla base del fallimento delle trattative segrete che dovevano portare alla normalizzazione delle relazioni diplomatiche fra Libia e Israele c’è un errore strategico. Un errore che parte da lontano, almeno dal gennaio scorso, quando il capo della Cia, William Burns, subito dopo essere andato in visita in Israele, decide di fare tappa anche in Libia. Lì, il capo dell’intelligence americana intavola la trattativa con il premier libico Abdulhamid Dabaiba per convincerlo ad aderire agli Accordi di Abramo e riconoscere ufficialmente lo stato di Israele. Per Dabaiba, grande conoscitore dei delicati equilibri interni libici, non deve essere stato semplice acconsentire.
Un ipotetico accordo con Gerusalemme avrebbe portato in dote un notevole credito politico nei confronti degli americani: potete fidarvi di me, ora però sostenetemi per restare il vostro interlocutore preferito, era il messaggio di Dabaiba nell’accettare di aprire le trattative con Israele. Il premier era anche consapevole dei rischi. I suoi detrattori erano pronti a strumentalizzare un eventuale passo falso del governo di Tripoli e quello, sedersi allo stesso tavolo con rappresentanti dello stato ebraico, poteva rivelarsi potenzialmente il più grande dei passi falsi. Trascorrono i mesi ma, coincidenza, è solo la scorsa settimana – lo sappiamo perché è un maldestro messaggio del ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen a dirlo ai giornalisti – che le trattative fra Tripoli e Gerusalemme accelerano. Si arriva così al vertice segreto di alto livello a Roma, con il coinvolgimento dei ministri degli Esteri di entrambi i paesi e con la mediazione italiana. Non si conosce esattamente il giorno dell’incontro, ma sarebbe un dettaglio interessante. Perché martedì scorso, il 22 agosto, è il giorno in cui l’ambasciatrice americana all’Onu, Linda Thomas-Greenfield, pronuncia un discorso molto duro al Consiglio di sicurezza con cui, di fatto, gli Stati Uniti scaricano Dabaiba: “Siamo pronti a un governo tecnico di unità nazionale”, dice la diplomatica, facendo intendere che l’incarico del premier libico non è più considerato a tempo indeterminato.
L’inviato speciale dell’Onu in Libia, Abdoulaye Bathily, ribadisce: “C’è un’assenza di controllo e sicurezza nell’ovest”, è la sua denuncia, visti gli scontri violenti a Tripoli di qualche giorno prima, che avevano causato 55 morti e centinaia di feriti. In un attimo, per Dabaiba è venuta meno ogni forma di legittimazione internazionale, la sola che lo abbia tenuto ancora saldo al potere, visto che quella interna, invece, era già stata abbondantemente messa in discussione – il suo mandato, in teoria, era scaduto nel dicembre del 2021. Da una settimana a questa parte, il premier libico non è mai stato tanto solo e indebolito a livello internazionale. Ma non basta. Sabato scorso, evidentemente quando il vertice con gli israeliani si è già tenuto, l’inviato speciale degli Stati Uniti in Libia, Richard Norland, ribadisce alla stampa saudita che “nessuno vuole vedere in Libia un altro governo ad interim che finisce col restare insediato per anni”.
Poche ore dopo, arriva il disastroso comunicato degli israeliani che accende la rabbia in Libia e dà il colpo di grazia all’autorità di Dabaiba. A dare la misura del fallimento del piano americano è un fatto: se anche le trattative per la normalizzazione delle relazioni con Israele fossero andate a buon fine, la rabbia contro il governo sarebbe stata ancora più forte. La scelta di Washington di delegittimare il governo di Tripoli e, contemporaneamente, fare leva sulla sua disperata ricerca di un riconoscimento internazionale per costringerlo a una trattativa tanto delicata è stata un errore strategico grave e dall’impatto ancora tutto da definire, visto che gli scontri in Libia vanno avanti da giorni. Ma a perderci di più, dopo Dabaiba, c’è proprio l’Italia.
Fra i paesi della comunità internazionale dovremmo essere i più grandi conoscitori della Libia e in quanto tali sarebbe stato più accorto, da parte nostra, fare capire agli alleati americani che c’era più da perdere che da guadagnare da un accordo in tempi brevi fra Libia e Israele. Invece abbiamo deciso di accodarci a una mossa fallimentare, probabilmente illudendoci di potere conseguire un successo diplomatico. Con una differenza, rispetto agli americani: noi siamo economicamente e strategicamente molto più esposti di loro nel paese nordafricano. La priorità, forse, era un’altra: prima di normalizzare le relazioni fra Libia e Israele, occorre normalizzare la Libia al suo interno.