Editoriali
Le parole malate su Gaza e Israele
Da “resistenza” a “pulizia etnica”, il gioco di prestigio linguistico è riuscito
Anche i ciechi e i sordi hanno capito che il termine “resistenza” è un eufemismo per indicare gli attacchi terroristici contro gli israeliani. Eppure, l’opera di appropriazione del lessico del Novecento (resistenza, pulizia etnica, massacri, genocidio etc) da parte dei filopalestinesi è stata martellante, capillare, egemonica, impressionante, al punto che quando un’armata di 1.500 terroristi sono entrati nei confini israeliani, sfondando in venti villaggi ebraici, sterminando donne, anziani, bambini, compiendo le peggiori nefandezze, testimoniate dai video girati dagli stessi jihadisti, immediatamente dalle università alle piazze occidentali si sono riversate masse di persone che hanno preso le difese della “resistenza”.
Basterebbe stare ai numeri, quelli veri, certificati, e non la propaganda, per capire che è una straordinaria montatura degna di Goebbels. Israele è il meno efficiente artefice di “pulizia etnica” della storia. Nel 1947 vivevano nella Palestina sotto Mandato Britannico 740.000 arabi palestinesi. Oggi gli arabi che vivono in Cisgiordania e Striscia di Gaza più gli arabi che sono cittadini israeliani ammontano a più di cinque milioni. Ma di lessico, di parole, di parole d’ordine, di richiami alla storia, si nutre la “società dello spettacolo” e non contano i missili iraniani, i fucili d’assalto, le mimetiche dei terroristi, è come se non riuscissimo a schiodarci dalla mitologia del popolo oppresso e dal suo oppressore, anche quando quest’ultimo paga il prezzo di sangue più alto da quando venne fuori dalle camere a gas. Ecco allora la responsabilità degli intellettuali, dei commentatori tv, degli accademici: le parole sono malate e non sembra esserci modo di guarirle.