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Il ritratto

“C'è sempre stato”. Il brutto-che-piace alle donne e pure ai nemici

Stefano Pistolini

Acuto, furbo, intelligente, machiavellico, secchione, testa d’uovo. Ma anche il “Playboy della Western Wing” capace di intrattenere rapporti esclusivi con la Cina e una confidenza con Xi Jinping che Blinken può solo invidiare

Kissinger c’è. Anche adesso che se n’è andato con un secolo sulle spalle, per tutti coloro che sono ancora vivi Kissinger praticamente c’è sempre stato, una presenza immanente, capace di cicliche riapparizioni dalle ombre, all’insegna del “ma non è morto?”. Poi, per chi è già avanti con l’età, Kissinger è un’icona più vivida, un vecchio nemico per chi in gioventù s’iscriveva a sinistra, portatore già nel nome della simbolica lettera scarlatta della malignità, la “K” che era la stessa dell’“Amerika” sanguinaria e di “Kossiga” suo fedele servitore. Perciò anche una figura a lungo odiata, archiviata senza mezzi termini come un criminale di guerra, prima di entrare nel suo lunghissimo periodo di classicità. Già, perché il suo decennio d’oro sono i lontani anni Settanta, allorché la rinomata capacità bipartitica di Kissinger è all’acme e lui serve come consulente e consigliere privilegiato di ogni presidente, repubblicano e democratico. Una carriera che culmina come coordinatore della diplomazia segreta che nel luglio 1971 produce lo straordinario annuncio dell’imminente viaggio di Nixon in Cina per incontrare Mao Zedong e più in generale orchestratore dell’apertura di Washington alla Cina comunista, intermediario del primo accordo di pace tra Egitto e Israele, conduttore dei negoziati di Parigi con Hanoi e del trattato che sancisce la fine della guerra in Vietnam – sebbene lui disprezzi apertamente il movimento pacifista in cui manifesterebbero soltanto degli “studentelli della ricca borghesia”. Kissinger è l’uomo più citato al mondo dai notiziari del tempo, autentica star mediatica al servizio delle amministrazioni Nixon e Ford, “Uomo dell’anno” di Time nel ’72 (in compartecipazione con Nixon, che mal digerisce la condivisione), effigiato sulla copertina di Newsweek come supereroe,  “Super-K!” e premio Nobel per la Pace nel 1973 con  Le Duc Tho, il negoziatore nordvietnamita, che preferisce non ritirare il riconoscimento. 


Al tempo stesso Kissinger è un protagonista delle cronache mondane conquistate dal “brutto che piace”, l’ex-ragazzo ebreo introverso e bullizzato ora corteggiato dall’alta società americana. L’editorialista di gossip Joyce Haber lo descrive “mondano, divertente, sofisticato e sprezzante con le donne”. La memorabile intervista che nel ’71 concede a Kandy Stroud ne parla come del sex symbol dell’amministrazione Nixon: “Henry è sempre amichevole, soprattutto con le donne. Al telefono, ai parties o di persona, l’uomo più ascoltato dal presidente è gentile, fanciullesco, persino un po’ insicuro. E presta un’attenzione rapita a ogni domanda, come se non avesse nulla al mondo di più urgente da considerare”. Lo conferma l’editorialista Mary McGrory: “Henry è un ascoltatore eccezionale e penso che questo sia il segreto del suo potere. Presta totale attenzione. Non solo aspetta che tu finisca di parlare, ma ti dà il tempo di riflettere su ciò che dice”. Acuto, furbo, intelligente, machiavellico, secchione, testa d’uovo. Ma anche il “Playboy della Western Wing”, l’ala della Casa Bianca riservata ai capi, una definizione che lo gratifica, come adora essere fotografato e oggi è un vero sottogenere a sé la galleria d’immagini che lo ritraggono in amichevole conversazione con tutti i grandi potentissimi del secondo Novecento. E di nuovo le donne tornano spesso come argomento su cui concede commenti confidenziali che oggi lo sbatterebbero dritto sulla graticola: “Mi piacciono quelle intense, intelligenti e affettuose. E una donna che sopravvive con me deve essere molto indipendente…”, fino a confessare che “per me le donne non sono che un passatempo, un hobby. E nessuno dedica troppo tempo a un hobby”.

E quanto alle motivazioni del suo fascino: “Sarà la mia voce profonda”. Del resto la stampa Usa, sebbene divisa tra chi lo apprezza e chi nutre sospetti sul suo operato, è unanime nel valutare il suo talento. A questo proposito Gloria Steinem scrive: “Henry è l’unica persona interessante nell’intera amministrazione Nixon e non ha paura dei giornalisti ostili. Mi piace parlare con lui: è l’unico nel team con cui valga la pena farlo”. Ma poi aggiunge: “Però, se questa fosse l’amministrazione Kennedy, nessuno gli presterebbe attenzione. E verrebbe dimenticato”. Della sua sapienza, del resto, non si dubita: vorace lettore, scrittore interessante, appassionato di filosofia cinese. Al tempo stesso, con il solito gusto per la dissacrazione, pronto a confessare che gli piace “guardare le figure” su Playboy: Hugh Hefner gli farà avere un abbonamento gratis dopo aver saputo che Kissinger si è presentato a una festa con sotto il braccio una cartella “top secret” contenente la bozza del famoso discorso di Nixon sulla “maggioranza silenziosa” del ’69, giustificandosi che contenesse soltanto la sua copia di Playboy.

Forse solo Woody Allen sa sostenere con la stessa prontezza di battuta le domande dei cronisti: come ti rilassi? “Lavoro all’uncinetto”. Cosa facevi nascosto in piscina con Jill St. John (l’attrice con cui intrattiene una storia clandestina)? “Le sto insegnando gli scacchi”. Perché non rilasci interviste? “Guarda come funziona il mistero per Greta Garbo”. Perché il presidente ti manda in Cina al posto del segretario di stato Rogers? “Sa che mi piace la zuppa di wonton”. Che dici su Dio? “Ci ​​vorrebbero sei volumi”. Scriverai un libro? “No, so troppo”.Il Nobel del 1973 è il culmine della sua parabola, prima che emerga, un pezzo alla volta, il suo coinvolgimento in una terribile serie di affari sporchi, da Timor Est all’invasione sudafricana dell’Angola, alla fine di Allende in Cile, solo per citarne alcuni. La sua immagine diventa quella del Nosferatu della politica internazionale e Carter lo congeda dalle stanze che contano. Lui amministra il declino e si mette in proprio, aprendo la Kissinger Associates e diventando un formidabile lobbista planetario, con rapporti esclusivi in Cina e una confidenza con Xi Jinping che ancora Blinken potrà soltanto invidiare. Trasloca a New York, lo si incontra spesso al Sans Souci o al Jockey Club, ma la sua vera base operativa è il leggendario Four Seasons – ristorante recentemente anch’esso passato a miglior vita e celebratissimo come testamento di un’éra, epicentro dei power lunch di Manhattan – accomodato al suo tavolo in abito scuro Brooks Brothers e cravatta rossa, solitamente con non più di un commensale, e sempre con davanti un bicchiere di vino e una tazza di tè, ovviamente serviti senza bisogno di ordinarli.