Sostenitori degli houthi a Sanaa in Yemen (foto LaPresse)

minaccia nel mar rosso

Sparare a Israele per legittimarsi in Yemen. Cosa vogliono gli houthi

Luca Gambardella

La strategia dei più indipendenti fra i membri dell'Asse della resistenza. L'Iran li arma, certo, ma hanno una loro agenda e puntano ad affermarsi contro i sauditi

“Per Allah, io e gli altri mujaheddin siamo pronti a combattere al fianco dei nostri fratelli palestinesi, anche a costo di essere fatti a pezzi”, dice all’emittente al Masirah un soldato in marcia lungo una strada del governatorato di Sa’da, nel nord-ovest dello Yemen. Insieme a lui altre centinaia di militari. Mostrano la foto del leader houthi, Sayyid Abdulmalik al Houthi, con cui la loro tribù, la Khawlan bin Amir, è alleata dall’inizio della guerra contro il governo filosaudita. “Allah è grande, morte all’America, morte agli ebrei!”, gridano. Pochi chilometri oltre è già Arabia Saudita, che di combattere invece non ne vuole più sapere. Troppo importante difendere i suoi giacimenti di petrolio, che dal 2015 sono bersaglio degli attacchi houthi. “L’inverno sta arrivando, in Europa e negli Stati Uniti. Se Arabia Saudita ed Emirati entrano in una coalizione contro lo Yemen, non lasceremo un solo giacimento di petrolio e gas intatto”, ha minacciato Mohammed al Bukhaiti, uno dei leader di Ansar Allah. 

 

Sanno, i ribelli yemeniti, che Riad ora vuole la pace per ricomporre i pezzi lasciati da una guerra che le ha dato pochi benefici. A quasi dieci anni dall’inizio del conflitto, gli houthi si sono rafforzati, la produzione saudita di gas e petrolio è minacciata e l’immagine della monarchia sunnita è infangata dai bombardamenti indiscriminati sui civili. Un disastro a cui Riad vuole rimediare con la diplomazia. Due giorni fa, la stampa araba ha annunciato che dopo oltre 18 mesi di negoziati mediati dall’Oman sarebbe stato trovato un accordo di pace con gli houthi che potrebbe essere siglato entro la fine dell’anno. Tanto basta al principe ereditario saudita Mohammad bin Salman per spiegare il suo no alla richiesta degli americani, due giorni fa, di partecipare alla missione navale internazionale contro Ansar Allah nel Mar Rosso. Richiesta declinata perché, non senza ipocrisia, finora Riad si è ritagliata il ruolo di mediatore della guerra in Yemen fra ribelli e governo ufficiale, invece che quello di belligerante al fianco di quest’ultimo. Per questo l’Arabia Saudita non intende schierarsi in una missione militare a guida americana. 

 

Sfilate pro Palestina come quella dei militari di Sa’da dimostrano invece che la guerra di Ansar Allah punta lontano, a Israele, ma in realtà vuole colpire molto più vicino, nello stesso Yemen. Mentre il mondo arabo è impassibile davanti alla guerra a Gaza, gli houthi non mancano occasione per ricordare di essere gli unici in guerra contro lo stato ebraico, seppure a migliaia di chilometri di distanza prendendo di mira le sue navi nel Mar Rosso. La questione palestinese ha grande presa in Yemen e i ribelli vogliono usarla per legittimarsi. Ma intendono anche presentarsi al mondo come un interlocutore indipendente dall’Iran. Certo, Teheran fornisce loro armi e droni, ma Ansar Allah ha un’autonomia che gli altri membri dell’Asse della resistenza non possono vantare. Hanno una loro agenda e diverse fonti di guadagno, come i traffici illeciti con la Somalia e la gestione di un passaggio navale cruciale per il mondo intero, come quello di Hodeida, all’ingresso del Mar Rosso. Ora, gettando nel caos quel tratto di mare, Ansar Allah punta a consolidare il proprio ruolo di interlocutore nella regione e a ottenere più concessioni dai sauditi al tavolo dei negoziati. Le priorità sono un riconoscimento formale come unica autorità legittima nello Yemen e aiuti economici. L’alternativa è tornare a una guerra che per ora nessuno, nemmeno i sauditi, vorrebbe combattere davvero. 

Di più su questi argomenti:
  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.