negli stati uniti
La strategia di Trump per trionfare alle (scontate) primarie repubblicane
A gennaio Iowa e New Hampshire inaugurano le elezioni per eleggere i due sfidanti alle prossime presidenziali. L'ex presidente cerca una doppia vittoria per demolire Ron DeSantis e Nikki Haley. Le probabilità, le strade strette e il tifo dei democratici
Sembra tutto così scontato da far pensare che sia in arrivo qualche sorpresa. Negli Stati Uniti parte la stagione delle primarie per scegliere i candidati alla Casa Bianca e potrebbe finire tutto entro il mese di gennaio, senza aspettare il Super Tuesday del 5 marzo né tantomeno le convention estive che incoronano ufficialmente i due sfidanti, democratico e repubblicano. Con Joe Biden senza rivali e Donald Trump in testa con ampio margine in tutti i sondaggi, le primarie stavolta sembrano una formalità.
La sera del 15 gennaio si vota in Iowa, con la formula tradizionale dei caucus, le assemblee locali che da una cinquantina d’anni rappresentano il calcio d’inizio dell’anno elettorale americano. Il 23 gennaio si replica in New Hampshire con i seggi elettorali aperti tutto il giorno per le primarie. In entrambi i casi l’attenzione sarà tutta per i repubblicani, perché Biden ha preteso e ottenuto che le primarie del suo partito stavolta partissero a febbraio in South Carolina, ritenendolo uno stato più rappresentativo della diversità del paese rispetto a Iowa e New Hampshire, dove domina l’elettorato bianco.
Trump è alla ricerca di un micidiale uno-due, una doppia vittoria con ampio margine che in una settimana demolisca Ron DeSantis e Nikki Haley, gli ultimi avversari seri che sono rimasti a contendergli la nomination repubblicana. In Iowa i sondaggi lo indicano costantemente intorno al 50 per cento, con il governatore della Florida e l’ex ambasciatrice all’Onu che inseguono da lontano, accreditati ciascuno di meno del 20 per cento. In uno scenario così, l’unica cosa che Trump deve veramente temere è che il suo potenziale elettorato dia per scontata la vittoria e non si presenti ai caucus. Ed è su questo che il suo team sta lavorando in questi giorni: non tanto cercare nuovi voti – ne ha più che a sufficienza, sulla carta – quanto consolidare la base.
Votare in Iowa non è semplice, richiede una reale volontà di impegnarsi politicamente. Si vota in un lunedì lavorativo e bisogna recarsi alle 7 di sera, nel gelo di gennaio nel Midwest, in uno dei 1670 luoghi predisposti per votare nelle 99 contee dello stato: scuole, circoli, sale pubbliche. Qui, una volta registrati i presenti e chiuse le porte, si va avanti per un’ora a dichiarare pubblicamente il proprio voto, in una sorta di assemblea, e poi si contano le preferenze per ciascun candidato. Qualcosa di molto più impegnativo insomma del normale voto segreto nella cabina di un seggio elettorale, come avverrà invece in New Hampshire e in gran parte degli altri stati.
È per questo che in Iowa conta moltissimo il lavoro che si è fatto porta a porta nei mesi precedenti, per arruolare volontari e organizzarli la sera del voto. Trump nel 2016 fece l’errore di sottovalutare la sfida, puntò tutto sui suoi mega comizi e perse l’Iowa a vantaggio di Ted Cruz (ma in seguito riprese il comando, conquistò la nomination e sconfisse Hillary Clinton nelle elezioni generali di novembre). Stavolta il team dell’ex presidente sembra aver imparato la lezione. A Des Moines, la capitale, e nel resto dello stato i giornalisti americani hanno verificato come la macchina organizzativa di Trump appaia efficiente ed efficace.
L’aiuto maggiore a “scaldare” e mobilitare la base però lo stanno dando i giudici. Ogni nuova disavventura giudiziaria viene utilizzata abilmente dal front runner dei repubblicani per tenere desto e indignato il proprio elettorato e spingerlo ad andare a votare. Si può dire che i processi sono per Trump l’equivalente di ciò che il tema dell’aborto rappresenta per Biden: un toccasana per l’affluenza alle urne. E sarà così probabilmente per tutto il resto dell’anno.
“Al Capone è stato incriminato una sola volta – ha detto Trump in questi giorni in una tappa elettorale ad Ankeny, un paesino dell’Iowa centrale – con me invece ci hanno già provato quattro volte, solo perché ho contestato un’elezione. Questa è gente malata, sono brutte persone”. Un esempio della retorica anti-giudici con cui l’ex presidente incita la folla, alla quale adesso indica come bersaglio dell’indignazione anche quegli stati, Colorado e Maine, che lo vogliono rimuovere dalla scheda elettorale ritenendolo ineleggibile, alla luce dell’assalto a Capitol Hill di tre anni fa. “Queste sono cose che accadono nei paesi comunisti”, ha detto alla National Review Steve Scheffer, uno dei politici locali che fanno campagna per Trump. “Solo in quei luoghi si decide chi può stare sulla scheda elettorale e chi no, chi deve vincere e chi no”.
Nei prossimi giorni, per essere sicuro che il popolo Maga (Make America Great Again) arrivi carico e arrabbiato all’appuntamento del 15 gennaio, Trump alzerà ancora di più il livello della retorica. Già ha cominciato negli ultimi giorni dell’anno, sostenendo che gli immigrati clandestini stanno “avvelenando il sangue della nostra Nazione”, una frase che da più parti ha sollevato paragoni allarmati con Adolf Hitler. C’è da aspettarsi che ne sparerà di ancora più grosse, per continuare a tenere puntati su di sé i riflettori dei media, che dopo anni e anni di confronto con Trump ancora cadono nella trappola della sua retorica sopra le righe. Ogni polemica, ogni vicenda giudiziaria che abbia al centro l’ex presidente “succhia via l’ossigeno” a tutti gli altri candidati, come ha denunciato DeSantis, che però in un anno non è riuscito a trovare il modo di riprendersi la scena. Trump probabilmente userà tutte le proprie armi di distrazione di massa a cavallo del 10 gennaio, quando la Cnn ha organizzato l’ultimo dibattito tv tra i candidati prima del voto, che l’ex presidente ancora una volta diserterà sostenendo di essere “troppo avanti nei sondaggi” per sottomettersi al confronto con gli avversari.
In uno scenario che sembra prefigurare una scontata affermazione di Trump, quali possono essere le sorprese? Non le vicende giudiziarie, che finora lo hanno sempre rafforzato e comunque non possono arrivare a un epilogo entro la fine di gennaio. Anche se scendesse in campo la Corte Suprema di Washington, come appare probabile, per dire una parola finale sull’eleggibilità o meno dell’ex presidente, i tempi saranno comunque lunghi e le primarie saranno già in fase avanzata.
La vera sorpresa possono invece essere i risultati di DeSantis in Iowa o di Haley in New Hampshire. Il governatore della Florida ha puntato tutto sullo stato del Midwest, lo ha girato più di ogni altro candidato, ha investito forte in un risultato importante e ha ricevuto l’appoggio pubblico di alcuni decisivi leader politici e religiosi locali, primo tra tutti l’evangelico Bon Vander Plaats, che da molti anni non sbaglia mai nell’individuare il vincitore dei caucus.
DeSantis ha studiato il modello vincente che tutti cercano di ripetere in Iowa: quello di Jimmy Carter nel 1976. Fu l’allora semisconosciuto governatore della Georgia a rendere i caucus per la prima volta così importanti. Nessuno lo dava per favorito, ma Carter girò tutto lo stato, parlò con la gente, conquistò la fiducia degli elettori locali e portò a casa una vittoria sorprendente, che lo lanciò fino alla Casa Bianca. DeSantis spera di sorprendere tutti con una fortissima mobilitazione la sera del 15 gennaio e conta per questo sulle chiese locali e su una situazione del meteo che non scoraggi a uscire di casa gli elettori più anziani e tradizionalisti. Un secondo posto dietro a Trump con un risultato che arrivi intorno al 30 per cento terrebbe in vita la campagna di DeSantis e forse cambierebbe un po’ la narrazione elettorale.
Ma il governatore della Florida non ha solo il problema di cercare di avvicinarsi a Trump, ha anche quello di guardarsi le spalle da Nikki Haley, che nelle ultime settimane è apparsa forte e in crescita e che ha creato una macchina elettorale altrettanto efficiente in Iowa. L’ex governatrice della South Carolina ha un duplice vantaggio su DeSantis: dopo il voto nel Midwest, il circo delle primarie si sposta in New Hampshire e poi nel suo stato natale e in entrambi lei appare più forte del rivale. Nonostante un passo falso dei giorni scorsi che potrebbe averla danneggiata: in un comizio, a chi le chiedeva le cause della guerra civile americana del diciannovesimo secolo, ha risposto senza mai citare la schiavitù. Si è dovuta scusare il giorno dopo e per ora i sondaggi non sembrano punirla.
L’impressione è che DeSantis si giochi tutto in Iowa e la Haley faccia altrettanto nel piccolo stato del nordest, che ha creato e distrutto un gran numero di carriere politiche e ha tenuto a battesimo molti futuri presidenti. Se Nikki Haley esce dall’Iowa davanti al governatore della Florida e con un buon risultato, potrebbe portare a bordo un candidato che appare pronto a mollare la corsa, Chris Christie, l’ex governatore del New Jersey che in New Hampshire viene accreditato al terzo posto con un solido 11 per cento.
È una strada stretta, ma che potrebbe portare anche a una vittoria in New Hampshire per l’unica donna in corsa per la presidenza. E a quel punto lo scenario potrebbe cambiare, la narrazione sui media girare a favore della Haley, con un Trump furibondo alle prese con la necessità di andare a vincere nel Supermartedì del 5 marzo, sapendo di aver nel mezzo un altro ostacolo non da poco: il 4 marzo, il giorno prima del voto che vale 1.215 delegati in un colpo solo, si apre a Washington il processo federale contro Trump per l’accusa di aver incitato al colpo di stato. +
In tutto questo, i democratici fanno da osservatori esterni. Le loro primarie sono puramente formali e il primo appuntamento vero è il 3 febbraio in South Carolina. Il team Biden fa apertamente il tifo per Trump, convinto che tutte le beghe giudiziarie lo rendano vulnerabile e più facile da battere di un DeSantis o di una Haley. Ma molti osservatori mettono in guardia su questa scommessa, consapevoli che il presidente è debole politicamente, anziano anagraficamente e alle prese con il difficile compito di convincere gli americani nel 2024 che le cose stanno migliorando, negli Stati Uniti e nel resto del mondo. E che vale la pena dargli altri quattro anni di tempo per completare il lavoro.
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