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La testimonianza

La catastrofe di Haiti raccontata da chi ci vive: "Io spero in Dio. Ma come ci porterà fuori da questo caos?"

Davide Perillo

Nel piccolo paese dei Caraibi l'unica cosa che non manca mai è la violenza. Suor Maria Catozza ha 61 anni e vive lì dal 2005: ha superato il terremoto del 2010 e il Covid. Ma una tragedia del genere, non se l’aspettava: "Si spara dovunque. Ci sono rapine, assalti, omicidi"

“La situazione? Allucinante”. Lo dice con voce tonica, accento lombardo e una parlantina serrata che non fa intendere segni di sconforto. Ma quello che racconta di Haiti, la sua Haiti, mette i brividi: “Si spara dovunque. Ci sono rapine, assalti, omicidi. La gente ha paura di uscire. I camion vanno in giro quando possono. Vuol dire che i negozi spesso restano vuoti e manca pure l’acqua potabile. Da noi per qualche giorno abbiamo dovuto aspettare che piovesse, per bere. E se prima le zone più a rischio a Port-au-Prince erano le baraccopoli, giù intorno al mare, adesso le bande assaltano pure i quartieri ricchi, come Laboule e Thomassin. La città è fuori controllo”.
 

Suor Marcella Catozza, 61 anni, francescana, vive nell’isola caraibica dal 2005. Ha visto susseguirsi un terremoto da duecentomila morti (nel 2010) e il dramma del Covid, l’assassinio di un presidente in carica (Jovenel Moïse, ucciso da un commando il 7 luglio 2021) e il dilagare delle bande armate. Ha visto impantanarsi il paese al 151esimo posto (su 176) nelle classifiche globali del pil pro capite (sui 4 dollari al giorno). Ma una tragedia del genere, non se l’aspettava. Neanche quando passava pomeriggi interi a trattare con i capibastone dello slum di Warf Jeremie per convincerli a girare al largo da Kay Pè Giuss, la casa dove accoglie 150 bambini e ragazzi abbandonati, molti dei quali disabili. “Ce la siamo sempre cavata, finora. Ma adesso è dura”.

 

Suor Marcella Catozza - foto dal sito della fondazione ViaLattea.org

 

Haiti sta implodendo. Nel paese dove non si vota dal 2016, ormai governano le gang: qui sono da sempre uno stato parallelo e capillare (l’Onu, anni fa, ne aveva contate più di 300), ma ora hanno preso il sopravvento. Il 29 febbraio i G9 Fanmi e Alye (“Famiglia e alleati”, in creolo), consorzio tra nove delle bande più potenti, hanno impedito ad Ariel Henry, presidente e premier pro tempore salito al potere tra mille ombre dopo l’assassinio di Moïse, di rientrare dal Kenya. Attorno ai G9 e al suo leader, l’ex poliziotto Jimmy Chérizier detto Barbecue (soprannome che la gente attribuisce all’abitudine di bruciare i nemici), si sono coalizzati altri gruppi. I banditi hanno preso l’aeroporto, assaltato due penitenziari, liberato 3.800 carcerati, saccheggiato case e negozi. L’esercito è inerme. La polizia (meno di diecimila agenti nell’isola, dopo che nel 2023 in 1.600 hanno mollato la divisa per passare dall’altra parte) chiede aiuto sui social. Lo stato d’emergenza non ha portato a nulla. In un paese di 11,4 milioni di abitanti, dove l’anno scorso ci sono stati più di ottomila omicidi, quindicimila persone hanno dovuto scappare di casa, aggiungendosi a un esercito di oltre duecentomila profughi interni.
 

Tra gli sfollati, ora, ci sono anche trenta bambini di suor Marcella. “I più grandi, quelli dai 14 anni in su. Li abbiamo portati dai parenti, per chi li ha. È l’unico modo per evitare che i maschi siano reclutati dalle bande e le femmine rapite per altri motivi. Noi continuiamo ad aiutarli, da lontano”. Gli altri (“122, quelli che non hanno neanche un parente vivo”) sono rimasti nella casa di Warf Jeremie, dove prima dei disordini lavoravano una settantina di persone tra educatori e volontari. Qualcuno è scappato. Molti restano lì anche a dormire: “Tornare a casa è troppo rischioso”. Altri la mattina arrivano via mare, per evitare guai. “I G9 hanno la loro base vicino. I capi li conosco da quando erano ragazzi. Ma se prima ci si poteva ragionare, e hanno sempre rispettato il lavoro che facciamo, adesso fanno a gara a chi si mostra più duro”.
 

A metà febbraio era arrivato un ultimatum: avete una settimana per andarvene, ci serve la casa. “Ho contattato l’Unicef, l’Onu, l’ambasciata. Nessuno poteva fare niente. Ci siamo salvati solo perché la banda che voleva cacciarci si è alleata con un’altra, e non aveva più bisogno di un avamposto sul mare”. Anche suor Marcella, nel frattempo, ha dovuto rientrare in Italia. Glielo ha chiesto la nunziatura, dopo l’ennesima minaccia. Ora segue la situazione da Assisi. Continua a guidare la casa, a comprare da qui quello che serve lì. È in contatto continuo e le arrivano in tempo reale notizie da una capitale. È la famosa punta dell’iceberg. “Il caos di Haiti è provocato altrove”. Racconta del viavai di piccoli aeroplani, “di notte ne vediamo passare di continuo, anche se l’aeroporto chiude”. Un traffico che secondo lei spiega molto cose: “Le bande non sono armate di machete e bastoni: hanno mitra, bombe, droni. Armi sofisticate. Vuol dire che qualcuno gliele fa arrivare”. Chi? “Io ho sempre pensato che sia una questione di narcotraffico. Ci sono cinque cartelli messicani che hanno base qui: la droga arriva e viene smerciata verso gli Stati Uniti o l’Europa. Siamo in una posizione perfetta. Soprattutto se il paese è fuori controllo”.

 

 

E lei crede che ci resterà a lungo, nonostante le dimissioni di Henry, le trattative in corso e l’idea di un Consiglio di transizione che dovrebbe accompagnare a elezioni. “Non vedo soluzioni a breve. Kenya e Ciad hanno promesso truppe per mettere ordine. Ma le bande come i G9, i G-Pep o i Mawozo 400 hanno migliaia di miliziani. I soldatini del Kenya, anche se arrivano, o girano la faccia dall’altra parte o non avranno vita lunga”. E a complicare tutto c’è quella che lei chiama “la resistenza atavica degli haitiani ad avere uno che comanda. Se qualcuno ci prova, la reazione di solito è: chi sei tu per darmi ordini. Anche Barbecue più che un boss è un portavoce. Si sono divisi i compiti. Mekanord, il capo della nostra zona, si è incoronato re, altri hanno altre cariche”.
 

In questi giri di potere, l’unica cosa certa è la violenza. E l’impotenza della comunità internazionale, distratta da altre cose. “Sono settimane che chiedo di organizzare un corridoio umanitario per portare via i bambini. Ho interpellato tutti, da Sant’Egidio al governo. Dieci giorni fa mi hanno ridetto che non si può, perché l’Europa non interviene e noi non possiamo fare altro”.
 

E loro, i bambini? “Non sono mai tristi. Li sento e li vedo di continuo, loro e gli educatori: non si lamentano mai. La prima cosa che ti dicono non è ‘c’è un problema’, ma ‘è arrivato da mangiare, abbiamo giocato, abbiamo fatto il bagno’. È un popolo così abituato a soffrire, che per loro è normale. E io insisto perché la loro vita sia il più possibile normale. Abbiamo organizzato una scuola nella casa, per non fargli perdere completamente l’anno. E gli ho detto di festeggiare i compleanni, sempre. Perché qualsiasi cosa succeda, c’è da fare festa perché ci sei”. L’ultima è stata per Thérèse, che ha compiuto undici anni il 25 febbraio. “Anche se ce l’avevano lasciata appena nata sui gradini della chiesa, non è detto che il giorno sia quello”. Ma che speranza c’è, per lei e per gli altri? Suor Marcella tace un istante, e poi, decisa: “La speranza c’è sempre, se no non ci sarebbe vita. Io spero nel buon Dio, sempre. Ma sono curiosa di vedere come ci porterà fuori da questo caos”

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