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L'editoriale del direttore

Gli ebrei in fuga dall'occidente. Ecco i numeri

Claudio Cerasa

Israele combatte stabilmente su sette fronti. Ma la guerra contro Israele fa meno paura dell’antisemitismo in giro per il mondo. Storia dei numeri record di immigrati (più 29 mila) che cercano riparo nello stato ebraico

Le operazioni militari lanciate ieri dall’esercito israeliano in quattro città della Cisgiordania ci ricordano che i fronti sui quali combatte lo stato di Israele sono ormai, e anche con una certa stabilità, non meno di sette, se si vogliono escludere da questo calcolo altri collaborazionisti del terrore come alcune università americane, come alcune federazioni dei giornalisti europei, come i collaborazionisti delle Nazioni Unite, che pur da posizioni diverse combattono da mesi battaglie simmetriche contro Israele, giustamente osservate con affetto dagli ayatollah iraniani. C’è il fronte della Cisgiordania, con tutte le sue problematiche, comprese purtroppo anche le azioni di terrore portate avanti da alcuni coloni. C’è il fronte di Gaza con i suoi terroristi di Hamas. C’è il fronte del Libano con i suoi Hezbollah. C’è il fronte iraniano con i suoi pasdaran. C’è il fronte dello Yemen con i suoi houthi. C’è il fronte della Siria con le sue milizie al soldo dell’Iran. C’è il fronte dell’Iraq con i suoi combattenti teleguidati da Teheran.

Vivere in Israele, oggi, significa essere circondati da professionisti del terrore che in modo esplicito sognano di spazzare via uno stato dalla mappa geografica, from the river to the sea. Ma nonostante questo, la potenza generata in giro per il mondo dall’emergere dell’intifada globale, dall’odio irriducibile contro gli ebrei, dalla nuova internazionale dell’antisemitismo ha generato in molti ebrei che si trovano fuori da Israele un senso di insicurezza superiore rispetto a quello percepito dagli ebrei che vivono in mezzo ai sette fronti che assediano ormai da mesi lo stato di Israele. Lunedì scorso, un rapporto speciale del ministero dell’Aliyah e dell’Integrazione israeliano ha fatto emergere un dato sorprendente e per alcuni versi drammatico. Nonostante la guerra in corso, il numero di nuovi immigrati arrivati in Israele dal 7 ottobre ha raggiunto delle cifre che non si vedevano da anni e in particolare negli ultimi dieci mesi in Israele sono arrivati 29 mila immigrati che hanno scelto di beneficiare della “aliyah”, la legge che riconosce a qualsiasi ebreo il diritto legale all’immigrazione assistita, all’insediamento in Israele e alla cittadinanza israeliana


Tra i paesi da cui sono arrivate più domande ce ne sono quattro in particolare.  C’è il Regno Unito, che ha registrato un aumento del 63 per cento di richieste rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. C’è il Canada, che ha registrato un aumento di richieste pari all’87 per cento. Ci sono gli Stati Uniti, che hanno registrato un 62 per cento in più di richieste. E c’è, infine, il caso spaventoso della Francia, che ha registrato, rispetto agli stessi mesi dell’anno precedente, un balzo di richieste pari al 355 per cento (355: non è un refuso). Per Israele, avere a che fare con un boom di immigrati, che cercano rifugio, che cercano sicurezza, che cercano protezione, è un segnale incoraggiante, che mostra la capacità, da parte dello stato ebraico, di proiettarsi ancora nel futuro e di dare, nonostante tutto, un senso di sicurezza a tutti gli ebrei che in giro per il mondo non si sentono più sicuri. Ma per i paesi da cui scappano gli ebrei questi numeri certificano purtroppo una verità diversa, che in troppi continuano a non voler vedere. La macchina dell’antisionismo che è tornata a macinare odio dopo il 7 ottobre provando a creare confusione rispetto a chi sono gli aggrediti e chi sono gli aggressori in medio oriente è una macchina il cui lavorio produce ormai da mesi un effetto preciso che coincide con la legittimazione progressiva dell’odio non contro Israele ma contro gli ebrei. Giorni fa, l’agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali ha condotto un sondaggio su 8 mila ebrei provenienti da 13 paesi europei e ha rivelato che il 96 per cento degli intervistati ha dichiarato di aver avuto a che fare con l’antisemitismo nella propria vita quotidiana anche prima dell’attuale guerra a Gaza.  

Secondo lo stesso rapporto, il 76 per cento degli intervistati ha nascosto la propria identità “almeno occasionalmente”, il 34 per cento ha detto di essere restio a visitare eventi o siti ebraici perché non si sentiva sicuro, il 4 per cento ha dichiarato di aver subìto aggressioni fisiche, il doppio rispetto al sondaggio precedente condotto nel 2018, e il 60 per cento degli intervistati non è soddisfatto della risposta del proprio governo nazionale al crescente antisemitismo. Il paese più colpito da questo fenomeno è la Francia, paese che ha osservato con terrore l’esplosione causata da una bombola di gas che ha provocato quattro giorni fa un incendio di fronte alla sinagoga Beth Yaacov che solo per caso non si è tradotto in una strage. In Francia, si diceva, il 74 per cento della comunità ebraica ha dichiarato di ritenere che l’attuale conflitto abbia influito sul proprio senso di sicurezza e gli atti di antisemitismo sono quasi triplicati dall’inizio dell’anno, con 887 eventi registrati nel primo semestre contro i 304 registrati nello stesso periodo del 2023. Immaginare che Israele possa avere un futuro, nonostante il tentativo dei terroristi di mezzo mondo di cancellare il futuro dall’orizzonte di Israele, è una notizia incoraggiante. Prendere atto del fatto che l’intifada globale ha messo gli ebrei di mezzo mondo nella condizione di non sentirsi più liberi di professare la propria fede al punto di sentirsi più sicuri in un paese in guerra che in un occidente che la guerra la guarda da lontano dovrebbe essere il primo passo per comprendere cosa è diventato oggi l’antisemitismo, cosa c’è dietro l’antisionismo e cosa vuol dire difendere Israele per difendere anche la nostra libertà.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.