L'analisi

I tempi e le nuove regole della corsa di Israele su sette fronti

Micol Flammini

Con l'uccisione del leader di Hezbollah, Israele ha disarticolato il gruppo. Per ora. Ma le truppe Radwan, addestrate per combattere Tsahal, restano un pericolo. La posizione degli Stati Uniti e le scelte dell'Iran

Uno dopo l’altro, un obiettivo alla volta. La corsa di Israele per stabilire le regole di un nuovo medio oriente ha iniziato a farsi più veloce a luglio, da quando a Beirut aveva eliminato Fuad Shukr, uno dei comandanti di Hezbollah più importanti, stratega, consigliere militare e uomo che sapeva sempre dove poter trovare Hassan Nasrallah. Da Shukr è iniziato il domino, raffigurato anche da un video diffuso da Tsahal in cui le tessere del gioco hanno il volto e il nome degli uomini del gruppo militare uccisi finora: cadono uno alla volta, fino ad arrivare a Nasrallah; le tessere che seguono hanno un punto interrogativo, segno che sulla lista ci sono altri nomi, per i prossimi è questione di tempo.
 

Ieri nel quartiere  Dahiyeh di Beirut, tra le macerie, è stato recuperato il corpo di Nasrallah, Israele ha continuato a colpire il sud del Libano e anche Beirut, nel quartier generale che, nonostante i le bombe di Tsahal, Hezbollah continua ritenere il posto da cui gestire la sua guerra. Israele ha sradicato la catena di comando del gruppo, ha messo Hezbollah di fronte alla consapevolezza che chiunque in questo momento può essere colpito –  anche il successore di Nasrallah: Safi al Din, capo del Consiglio del Jihad, cugino del capo eliminato e imparentato tramite matrimonio anche con il generale Qassem Suleimani – ha creato una crisi di comando, di controllo, di comunicazione, di leadership e di intelligence, ma è ancora lontano dal suo obiettivo: riportare i sessantamila sfollati del nord nelle loro case in sicurezza.
 

La crisi interna di Hezbollah ha lasciato intatti gli arsenali del gruppo che sono pieni e sofisticati quanto quelli di un esercito regolare e seppur indebolita nella catena di comando, ha lasciato pressoché attiva la forza delle truppe Radwan, create con l’unica missione di penetrare nel territorio israeliano e portare la guerra  con un attacco o una serie di attacchi simili all’operazione compiuta da Hamas il 7 ottobre. Né gli arsenali di Hezbollah né le forze Radwan possono essere distrutte con attacchi dall’alto, Israele, che sa di star conducendo la guerra con una superiorità raggiunta con anni di piani, progetti e informazioni di intelligence, deve decidere fino a che punto vuole risolvere i suoi problemi con il gruppo libanese. Hezbollah non ha più il carisma di Nasrallah a distribuire gli ordini, ma ha ancora la forza materiale, le truppe Radwan sono state addestrate per combattere contro Tsahal e sono in grado di farlo.
 

Potrebbe volerci molto tempo prima che Hezbollah ristabilisca la sua catena di comando, prima che il gruppo riprenda i suoi piani, ma a quel punto avrà a disposizione la sua potenza di fuoco e i suoi soldati: distruggerli è l’obiettivo di Israele, come, però, è in questo momento il cruccio dello stato ebraico. L’operazione di terra per penetrare nel territorio libanese, distruggere gli arsenali e decimare le forze Radwan, rappresenta un rischio.
 

Il presidente americano, Joe Biden, ha definito l’eliminazione di Nasrallah un’operazione di giustizia, ma ha detto che questo è il momento per un cessate il fuoco che parli a Hezbollah come a Hamas. C’è un punto su cui israeliani e americani, alleati imprescindibili l’uno dall’altro, non riescono proprio ad andare d’accordo:  i tempi. Washington pensa sia arrivato il momento di fermarsi per scongiurare una guerra più grande. Gerusalemme pensa che invece sia questo il momento di andare avanti, per cambiare tutto. E avanti vuol dire anche capire se l’Iran, il regista di una guerra su più fronti contro Israele, è pronto a sporgersi fino al dirupo di un corpo a corpo con Israele. Per ora le parole che vengono da Teheran sono di conservazione. La Repubblica islamica ha promesso una ritorsione per vendicare il generale Abbas Nilfarushan, che si trovava a Dahiyeh il giorno del grande attacco per colpire Nasrallah, ma per vendicare le sorti del leader di Hezbollah non ha promesso interventi in prima persona.
 

Ieri Israele ha colpito il porto di Hodeidah nello Yemen gestito dagli houthi dopo che la milizia nei giorni scorsi ha cercato d colpire Israele con i droni e con un missile. Qualche ora prima, un aereo con a bordo il portavoce degli houthi Mohammed Abdul Salam si è schiantato per un incidente mentre volava in Iran. Dentro al sedicente asse della resistenza, l’insieme di forze anti israeliane che su sette fronti combattono contro lo stato ebraico, i ruoli cambiano di continuo, c’è una competizione strisciante per chi conta di più, per chi è più mortale. Hamas, Hezbollah, houthi, milizie sciite in Siria e in Iraq, ognuno combatte la sua lotta, tutti si approfittano della debolezza che gli altri infliggono a Israele, ma nessuno si sacrifica per assicurare la sopravvivenza degli altri.

Cosa succede in medio oriente: la giornata

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)