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Da Washington a Teheran, l'impotenza dei potenti

Siegmund Ginzberg

Niente di peggio per i grandi del mondo di non essere ascoltati. Tutti invocano la de-escalation ma nessuno sembra intendere. Perché la deterrenza, per essere efficace, deve essere credibile. I leader nel pallone

Non c’è niente di peggio, per i grandi e i potenti, del rivelarsi impotenti. “Non fatelo”, aveva detto Biden prima dell’invasione di Gaza, e prima delle rappresaglie e contro-rappresaglie a suon di missili. Come non detto. Ora gli dice di essere contrario a una rappresaglia israeliana contro le installazioni nucleari iraniane. A ruota lo dice anche il G7, per quello che conta. Mi frulla un pensiero: vuoi vedere che quelli lo fanno, per tigna? “Non può restare al suo posto”, aveva detto di Putin subito dopo l’invasione dell’Ucraina. Sono passati anni e sta sempre lì, le sanzioni non sembrano avergli fatto un baffo. Cina, e anche Russia, hanno ripetutamente invitato tutti alla “moderazione”, alla de-escalation. Come non detto. L’Onu ha detto la sua. Come non detto. Sono ormai anni che Papa Francesco tuona contro tutte le guerre. Come non detto. Ma se nessuno ti dà retta, per quanto tu possa avere ragione, è un grosso guaio.

 

Ciascuna delle parti in causa ha consiglieri che pendono in una direzione e in quella opposta. Tra i dissensi più vistosi, le divergenze tra l’amministrazione Biden e il Pentagono. Basta dare un’occhiata alle differenze di sfumatura tra le dichiarazioni dei portavoce del Pentagono e quelle dei portavoce della Casa bianca. Qualcuno ha parlato addirittura di mini colpo di stato. In Israele è evidentissimo lo scontro tra Netanyahu, la destra che lo tiene ostaggio, e il suo ministro ribelle della Difesa, Yoav Gallant. Gli alti vertici militari e lo stesso Mossad. Potrebbe sembrare un controsenso, ma un po’ ovunque i militari e i servizi di intelligence tendono a premere sul freno anziché sull’acceleratore. Métier oblige. Si presume che ne sappiano di più dei politici. E guai se per viltà e opportunismo non osano dire la loro. Se Hitler non avesse dato retta a quelli che gli promettevano che la Wehrmacht sarebbe arrivata a Mosca prima dell’inverno nel 1941, o Putin ai generali sicofanti che gli prospettavano la presa di Kyiv nel giro di 48 ore, forse le cose sarebbero andate in modo diverso. Il segretario di stato, Antony Blinken, purtroppo non è Henry Kissinger. E sulla campagna presidenziale di Kamala Harris pesa come un macigno l’impossibilità per lei di prendere posizione senza prendere le distanze dall’amministrazione Biden.

 

Che Trump prometta di por fine a tutte le guerre in quattro e quattr’otto è una millanteria. Ma anche un punto a suo favore. Se lo dicesse Biden non gli darebbe più retta nessuno. Così come è motivo di imbarazzo che, con tutta la conclamata fermezza, non siano riusciti a cavare un ragno dal buco per l’Ucraina. E’ una cosa terribile che il capo della massima potenza militare ed economica al mondo non venga ascoltato, anzi, peggio, non venga più preso sul serio. Se i potenti non sanno bene che fare, se mostrano incertezza, e soprattutto se si rivelano impotenti, se quel che dicono e fanno è del tutto inefficace, si mette male per tutti.

 

 

Si parla molto di deterrenza. La deterrenza, per essere efficace, deve essere credibile. In questo gioco il bluff è sempre controproducente. La deterrenza per eccellenza, la deterrenza nucleare per esempio. Ha funzionato per tre quarti di secolo. Perché era credibile, e anche perché non se ne parlava a vanvera. Se inflazionata, rischia di produrre esattamente l’effetto contrario.

 

Per l’Iran il nucleare è una questione di orgoglio nazionale. Sinora si erano premurati di giurare e spergiurare che il nucleare che perseguivano era destinato solo a usi civili, che mai e poi mai l’avrebbero usato per farsi la bomba. Nel 2000 l’ayatollah Khamenei aveva emesso addirittura una fatwa, un decreto religioso insindacabile, in cui si dichiarava che le armi atomiche “sono proibite dall’islam” e che “la Repubblica islamica dell’Iran non acquisirà mai questo tipo di armi”. E’ passata molta acqua (e molto sangue) sotto i ponti. Nel 2000 l’Iran aveva appena 164 centrifughe per l’arricchimento dell’uranio, antiquate e inefficienti, e si mostrava poco interessato alla bomba. Oggi ne ha migliaia, moderne e assai più efficienti. Lo scorso aprile un parlamentare iraniano, con una carriera militare alle spalle, aveva dichiarato che erano in grado di produrre abbastanza uranio arricchito da farsi una bomba “nel giro di mezza giornata, o di una settimana o giù di lì”. Non era un commento estemporaneo, “dal sén fuggito”. Faceva riferimento a Khamenei il quale aveva minacciato che l’Iran “risponderà alle minacce allo stesso livello”, in altre parole che un eventuale attacco da parte di Israele agli impianti nucleari iraniani avrebbe portato l’Iran a ripensare la propria dottrina nucleare. La minaccia è stata più volte ripetuta nelle scorse settimane.

 

Cosa intendono dire quando affermano che a un’eventuale ritorsione israeliana contro le ultime salve di missili (compresi stavolta missili ipersonici, molto più difficili da intercettare), l’Iran risponderà con una contro-ritorsione ancora più “distruttiva”? Un bluff probabilmente. Ma chi è disposto ad andarlo a vedere? O si tratta invece di una specie di invito a Netanyahu perché faccia proprio quello che gli si dice di non fare, attacchi le installazioni nucleari iraniane, e non solo le raffinerie? Biden è ancora in grado di dargli buoni consigli? E’ fattibile? Certo, neutralizzare le capacità nucleari dell’Iran è tecnologicamente molto più complesso che vendere a quelli di Hezbollah cercapersone e walkie-talkie contraffatti. Vero, l’avevano già fatto introducendo un virus nei software della centrale di arricchimento di Natanz, nel ventre di una montagna e irraggiungibile anche ai missili penetranti. Pare che gli avesse mandato all’aria il progetto di arricchimento per anni. Saranno pure progrediti nel frattempo da una parte quanto dall’altra. La prima volta che avevano cercato di raggiungere Nasrallah in un suo bunker sotterraneo, avevano fallito. Evidentemente i missili perforanti usati stavolta erano più avanzati. E l’intelligence irreprensibile.

 

 

E’ ormai passato un quarto di secolo da quando Stati Uniti e Iran avevano cominciato a discutere di nucleare. L’amministrazione Bush puntava a un “arricchimento zero”. Era irrealistico. Con Obama si era arrivati ad un accordo, sottoscritto anche dagli europei. L’Iran, grande vincitore della guerra americana in Iraq (gli sciiti erano andati al governo a Baghdad), sembrava pronto a una svolta nei rapporti con l’America, e anche gli altri protagonisti nella regione. L’ultima volta che avevano trattato sul nucleare a Ginevra, la proposta americana era concedergli l’orgoglio di un nucleare per usi pacifici, in cambio della rinuncia alle ingerenze terroristiche e di una normalizzazione, non solo con gli Stati Uniti ma anche con Israele. Non se n’era fatto nulla. Arrivato alla Casa Bianca, Donald Trump nel 2018 aveva disdetto tutti gli accordi. A nulla erano valse le proteste europee. E l’Iran aveva continuato imperterrito ad arricchire uranio. Anche su questo bisognerà aspettare chi vince in America il 5 novembre? Sempre che la faccenda non scoppi prima, nelle mani di un Biden azzoppato.

 

Non è questione di chi colpisce più duro. Né di chi perde o vince. Specie in medio oriente (e ancora di più in estremo oriente) è questione soprattutto di non perdere la faccia. Perde chi si mostra debole, chi non è abbastanza deciso, chi non è abbastanza feroce, cattivo. Passerà per un perdente, per un loser. Non solo in medio oriente, anche in America è il peggior insulto che si possa proferire. Essere cattivi è un complimento, un modo per farsi rispettare. Essere ragionevoli, moderati, arrendevoli, disposti a un compromesso viene considerato un difetto. In America la cosa forse ha radici nella cultura da cowboy, nella conquista del Far West. Vero uomo è chi fa il duro. Ai ragazzini i padri insegnano che se uno ti dà un pugno devi rispondere spaccandogli la faccia.  Costi quel che costi. L’eroe nazionale ha la faccia di John Wayne. Deve dimostrare True grit, vera grinta. E’ una delle ragioni per cui potrebbe vincere Trump. In Cina la cultura è diversa, affonda le radici nei testi classici di strategia che insegnano a vincere le guerre senza nemmeno dover combattere. Ma anche in Cina perdere la faccia è la cosa peggiore che possa capitare. Non tanto di fronte agli avversari, ma di fronte alla propria gente. Se ti credono debole, ti mangiano vivo.

 

Vale per Israele come per l’Iran. Idem per Russia e Ucraina. Ecco perché dire di aver vinto è più importante che vincere. Solo per gli europei la sostanza conta ancora più della faccia. Gli americani li considerano femminucce. Da un po’ di tempo non dicono più, come facevano i neocon, che l’America agisce sotto il segno di Marte, mentre l’Europa è sotto il segno di Venere. Ma continuano a pensarlo. La guerra del Kippur (1973) fu invece un capolavoro di Golda Meir e Moshe Dayan. Avevano vinto, sia pure per il rotto della cuffia. Accerchiando, con un’audace manovra della brigata comandata da Ariel Sharon, la terza armata egiziana, che aveva attraversato il canale di Suez. Ma così facendo gli egiziani avevano allungato troppo le proprie linee di rifornimento. La Linea difensiva israeliana Bar-Lev, che veniva considerata inespugnabile, era stata sopraffatta. Era fatta di sabbia compressa. Gli egiziani l’avevano sciolta con potenti getti di acqua ad alta pressione. Dalla parte opposta avanzavano le colonne siriane. Ma, col “riattraversamento”, erano ora gli israeliani a minacciare il Cairo, a meno di cento chilometri dal canale. Il rovesciamento della situazione sul campo venne nel momento più critico per Israele. Quella volta gli israeliani avevano preso persino in considerazione l’uso dell’atomica. Dayan aveva dovuto dimettersi. Golda Meir avrebbe raccontato che a un certo punto, quando le armate arabe sembrava dovessero dilagare, aveva addirittura meditato il suicidio. Ma accettarono che fosse l’Egitto di Sadat a cantare vittoria. Capivano che altrimenti avrebbero perso l’interlocutore con cui potevano fare la pace. Cinquant’anni dopo, quella pace regge ancora.

 

Stavolta il gioco è ancora più complicato. I giocatori troppi e troppo diversi perché si possa prevedere come andrà a finire. Ciascuno gioca per conto proprio. E ciascuna parte ha divisioni profonde al proprio interno. La Siria di Assad è legata a filo doppio con l’Iran. Ma Assad ha un solo obiettivo: mantenere il potere. Hezbollah (il partito di Allah) è la longa manus dei Guardiani della rivoluzione a Teheran (uno stato nello stato, ma ai ferri corti con l’esercito regolare e il nuovo presidente della Repubblica a sua volta, come tutti i suoi predecessori, ai ferri corti con l’ayatollah supremo). Lo sceicco Nasrallah, prima di essere ucciso, continuava a minacciare e sbraitare. Ma Teheran lo aveva sempre tenuto a freno. Damasco si è guardata bene dall’attaccare direttamente Israele. Quando, dopo il 7 ottobre, iraniani e americani si erano incontrati in gran segreto in Svizzera, gli iraniani gli avevano detto chiaro e tondo che non volevano una guerra regionale allargata, men che meno una guerra con l’America. Nelle stesse ore in cui la “Guida suprema”, l’ayatollah Khamenei, “baciava le mani” ai perpetratori del massacro del 7 ottobre. E’ evidente che gli costerebbe carissimo. Non solo in perdite militari: agli ayatollah rischierebbe di costare la presa sul potere cui sono abbarbicati. Gli iraniani possono anche continuare a tollerare, in mancanza di alternative, un regime rovinoso e odioso. Ma non un’altra guerra sanguinosa come quella durata otto anni contro l’Iraq di Saddam. Figuriamoci una guerra atomica.

 

 

Una cosa è quel che si dice, un’altra quello che si fa. Se non si tiene presente questo si rischia di non capirci nulla. “Trattenetemi, se no faccio un macello”, è il refrain. Quasi nessuno è disposto a morire per i palestinesi. Non gli iraniani. Le fazioni a Teheran non sono mai state tanto ai ferri corti l’una contro l’altra. L’economia è a pezzi. La reazione alla minaccia di risposta israeliana all’ultimo attacco missilistico iraniano è stata il formarsi di code infinite ai distributori di benzina per fare il pieno prima che si prosciughino. Solo un tentativo maldestro di impossibile cambio di regime imposto dall’esterno riuscirebbe a ricompattarli.

 

Nessuno ha interesse alla guerra aperta. Non la Turchia di Erdogan. Non il Qatar, il maggior finanziatore storico di Hamas, che non ha nessuna intenzione di far svanire le rendite di posizione acquisite a suon di petrodollari, l’immagine tanto pagata in tutto il mondo (ricordate il Qatargate?). Non gli altri stati arabi, che hanno ciascuno una propria agenda. Non l’Arabia Saudita che continua a vendere il proprio “Rinascimento”, e il proprio petrolio. Non la Cina, nemmeno la Russia. Nemmeno gli altri palestinesi, malgrado l’aggressività dei coloni e la destra israeliana facciano di tutto per coinvolgerli. Se il movente di Hamas (per meglio dire di Sinwar, anche Hamas è tutt’altro che monolitica) era tirarli tutti dentro nel conflitto, su questo hanno fallito. Per ora almeno. Non c’è però da stare allegri. Le grandi guerre scoppiano proprio quando nessuno ha interesse a farle, nessuno le vuole davvero. Il 1914 dovrebbe insegnare ancora qualcosa. Il “Mondo di ieri”, per dirla con Stefan Zweig, l’Europa agitata ma tutto sommato felice della Belle époque crollò d’improvviso, senza che ce lo si aspettasse. E tutto perché l’Austria-Ungheria, dopo l’assassinio a Sarjevo dell’erede di Francesco Giuseppe, non poteva perdere la faccia. La deterrenza non aveva funzionato. Il punto più debole, quello su cui rischia di crollare tutto, di avvitarsi in un conflitto che nessuno (nessuno dei possibili protagonisti di peso) vuole davvero, è però l’inefficacia delle grandi potenze.

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