Il dialogo con Pechino ha un costo. Basta guardare Jimmy Lai

Giulia Pompili

Il primo ministro inglese Starmer menziona Jimmy Lay a Xi Jinping, ma poi negozia subito dopo il progetto dell'ambasciata alla Royal Mint. I giornalisti spinti fuori dalla sala dei bilaterali. “Lai è uno dei più importanti prigionieri politici del mondo”, ci dice Mark Sabah

C’è un video del G20 di Rio che secondo molti rappresenta a pieno la cedevolezza occidentale di fronte ai ricatti di Pechino. Nella stanza dei bilaterali c’è il primo ministro inglese, Keir Starmer, e di fronte a lui il leader cinese Xi Jinping. Starmer sta sollevando i punti più critici delle relazioni diplomatiche con la Cina (diritti umani, i parlamentari sanzionati, le minacce a Taiwan, la crisi nel Mar cinese meridionale) e menziona Jimmy Lai, il 76enne editore e attivista in carcere a Hong Kong che rischia l’ergastolo per aver difeso l’autonomia dell’ex colonia inglese. Appena Starmer pronuncia il suo nome, gli agenti della sicurezza cinesi spingono fuori minacciosi i giornalisti inglesi che erano nella stanza. Il primo ministro inglese si accorge della cosa ma va avanti lo stesso, e lo fa rassicurando Xi su una questione che gli sta molto a cuore.

 

Starmer e Xi Jinping si sono incontrati a Rio lo scorso 18 novembre. Solo due giorni dopo Jimmy Lai, descritto da chi ha potuto assistere all’udienza come molto dimagrito dopo oltre tre anni di carcere, si è presentato in aula per testimoniare in uno dei processi contro di lui per i quali rischia l’ergastolo. Nel 2020 con l’imposizione della legge sulla Sicurezza da parte di Pechino a Hong Kong  Lai è stato accusato di sedizione e di aver complottato con “forze d’influenza straniere”. In aula, dove c’era anche il cardinale Joseph Zen, ex vescovo di Hong Kong e amico di Lai, ha detto che i processi contro di lui sono una macchinazione, ha detto di non aver mai sostenuto la violenza durante le manifestazioni del 2019 e ha difeso il suo lavoro all’Apple Daily, il quotidiano che aveva fondato, vicino alle istanze dei manifestanti e chiuso con la legge sulla Sicurezza di Pechino. Il giorno prima dell’udienza di Lai, più di 40 attivisti della democrazia di Hong Kong, tra cui Joshua Wong, erano stati condannati a pene fino a 10 anni per eversione. “In questo momento Jimmy Lai è uno dei più importanti prigionieri politici del mondo”, dice al Foglio Mark Sabah, direttore della Fondazione Committee for Freedom in Hong Kong che ha lavorato per anni alla campagna Magnitsky con l’imprenditore Bill Browder. “E a Rio è accaduto in tempo reale quello che avverrà con altri governi, compreso quello italiano”, dice Sabah. Perché Starmer, subito dopo aver visto gli agenti di sicurezza cinesi spingere fuori i giornalisti inglesi per aver pronunciato il nome di Jimmy Lai, dice a Xi Jinping che si è già mosso per fare quello che la leadership di Pechino gli aveva chiesto: dare una mano per far approvare il progetto di spostare l’ambasciata cinese di Londra nella mastodontica Royal Mint. Un anno fa il piano cinese era stato fermato dal Consiglio comunale, che aveva dato ragione ai cittadini, preoccupati da un così gigantesco progetto cinese all’interno di locali storici della Corona. Sembrava tutto archiviato, ma poi Pechino ha ripresentato la richiesta di spostare lì la sede dell’ambasciata e, secondo alcune fonti del Guardian, avrebbe ricattato il governo inglese: se non si fa, blocchiamo anche i vostri lavori all’ambasciata britannica di Pechino. 

 

Da anni si discute della linea di confine fra il dialogo e l’appeasement nei confronti della Cina, ma secondo Sabah se un paese autoritario continua ad arrivare ai bilaterali con una lista di argomenti tabù, ponendo le condizioni, saremo sempre noi a subire il loro autoritarismo. Sabah menziona la sua esperienza con la Russia – “si comportava esattamente così, abbiamo passato anni ad avvertire il governo Cameron che Mosca stava diventando una minaccia alla sicurezza nazionale britannica ed europea, ma ogni volta la risposta da parte di tutti era: ma bisogna dialogare con la Russia. Adesso abbiamo le stesse risposte quando solleviamo il caso di Jimmy Lai. Perché dobbiamo aspettare una guerra con la Cina prima che noi, paesi europei, cominciamo ad avere una posizione seria e unitaria contro Pechino?”, dice Sabah. “Con la Russia abbiamo appena imparato la lezione”. 

 


Il presidente americano eletto, Donald Trump, a fine ottobre al podcast di Hugh Hewitt ha detto che non appena entrerà alla Casa Bianca sarà in grado di far uscire Lai di prigione “al cento per cento”, rivolgendosi direttamente a Xi Jinping. Durante la precedente Amministrazione Trump, l’editore di Hong Kong era stato perfino a Washington a incontrare l’allora vicepresidente Mike Pence nel tentativo di perorare a livello internazionale la causa dell’autonomia di Hong Kong: è quello uno dei motivi per cui è accusato di sedizione, ed è quello uno dei motivi per cui Lai è visto un po’ con sospetto dagli antritrumpiani globali, come se l’aver chiesto il sostegno dell’Amministrazione Trump sia una colpa, come se Trump fosse peggio di Xi Jinping. “A Trump non gliene frega niente né della Cina né dell’Europa”, dice Sabah, “e non gliene frega niente della libertà d’espressione, dei valori. Trump ha minacciato i giornalisti nel suo stesso paese, è difficile immaginare che voglia salvare quelli imprigionati in Cina. In ogni caso, se davvero libererà Jimmy Lai, avrà fatto almeno una cosa di estremo valore. Quello che mi chiedo è: cosa sarà disposto a dare in cambio a Pechino?”.

Di più su questi argomenti:
  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.