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Monaco 1938, Monaco oggi. Schiaffi e giravolte russe che ricordano i tempi di Hitler

Siegmund Ginzberg

Voltafaccia, litigiosi, incapaci di una visione strategica: i leader europei davanti al dittatore nazista. Kyiv come Praga, il nuovo libro di Maurizio Serra

L’unico insulto che l’assassino risparmiò al cadavere fu di dargli del “comico mediocre”.  Gli diede del guerrafondaio, del provocatore, del truffatore, del torturatore degli oppositori. Lo accusò di “grossolana distorsione dei fatti”. Ribadì l’impegno a far grande la Germania, “anche fossimo costretti alla guerra economica”. “Il nostro movente è semplice: esportare o morire”, disse. Presentandosi come unico garante della pace. Parole di Herr Adolf Hitler, nel gennaio 1939, in occasione del sesto anniversario della sua nomina a cancelliere, poco prima di scatenare la guerra. Aveva appena assassinato la Cecoslovacchia.

L’Ucraina rischia di fare la fine della Cecoslovacchia nel 1938. Tutto quello che fa e dice Trump è teso a rabbonire Putin piuttosto che a dissuaderlo. E’ arrivato a dire che è colpa dell’Ucraina se la Russia ha invaso l’Ucraina. “Avere iniziato. Non avreste mai dovuto cominciare. Avreste dovuto fare un compromesso [cioè cedere alle pretese territoriali russe]”. Sarebbe questa la ragione per cui ora li esclude dal tavolo della trattativa. Ce l’ha con Zelensky. Lo ricopre di insulti. Non un cenno invece di rimprovero a Putin. Ha delegittimato Zelensky con lo stesso argomento con cui lo delegittima Putin: “E’ molto tempo che non ci sono state elezioni [in Ucraina]”. Quindi sarebbe un “dittatore”. 

Esattamente quel che Hitler diceva dell’odiato presidente cecoslovacco Edvard Beneš (il quale era stato eletto nel 1935 con una percentuale dello stesso ordine di grandezza di quella con cui fu eletto Zelensky nel 2019 (73,22, rispetto al 77,27 di Beneš). Hitler chiedeva elezioni e referendum a tutt’andare. Non per amore della democrazia e dell’autodeterminazione, ma per destabilizzare i governi legittimi. La scusa, allora come oggi, era che maltrattavano una loro minoranza: i Sudeti (in realtà non tedeschi veri e propri ma sudditi dell’impero asburgico, che non avevano molta voglia di essere protetti dalla Grande Germania). E’ impressionante come la percentuale delle popolazioni russofone dell’Ucraina sia suppergiù simile a quella dei germanofoni in Cecoslovacchia, e la dimensione e forma dei territori contesi del Donbass somigli a quelli del Sudetenland.

 

Hitler chiamava dittatore il presidente cecoslovacco Edvard Beneš, e chiedeva elezioni e referendum a tutt’andare

         
Hitler definiva la Cecoslovacchia come “uno stato spregevole”. Ma a differenza di Trump non le si era mai finto amico. Tra i molti tentativi bizzarri di tessere un accomodamento in extremis c’era stato l’invio da parte di Londra di un cane sciolto, il liberale Walter Runciman. La missione non aveva la minima speranza. A silurarla contribuì, dall’Italia, Mussolini in persona, con un articolo pubblicato sul Popolo d’Italia in forma anonima, intitolato “Lettera aperta al signor Runciman”. Passava in rassegna le rimostranze tedesche contro la democrazia cecoslovacca, definita “un mostruoso stato fittizio”. “Se Hitler pretendesse di annettersi tre milioni e mezzo di cechi, l’Europa avrebbe ragione di commuoversi e muoversi. Ma Hitler non pensa a ciò […] Il Führer si occupa e preoccupa dei tre milioni e mezzo di tedeschi e soltanto di loro. Nessuno gli può contestare tale diritto”.

 

              

C’era in ballo molto di più. La Cecoslovacchia era il cuore industrializzato dell’Europa. Già nel 1914 la Boemia produceva da sola il 70 per cento degli armamenti dell’Austria-Ungheria. Nel 1940 avrebbe costruito un panzer su 3 di quelli in dotazione alla Wehrmacht. Aveva uno degli eserciti più possenti del continente, a differenza della Polonia, aveva i mezzi per dare del filo da torcere a qualsiasi aggressore. Aveva enormi risorse minerarie. Il corrispondente delle terre rare di cui è ricca l’Ucraina, componente essenziale di ogni futuro uso anche militare dell’intelligenza artificiale, che sono la posta che tutti vorrebbero ora spartirsi, da Trump a Putin, con l’Europa che rischia di restare a bocca asciutta. Era il pezzo sulla scacchiera indispensabile a una Germania che volesse fare la guerra. Stalin la considerava, la teorizzava come inevitabile. Hitler ne parlava già in segreto ai suoi generali. Paradossalmente tutti puntavano a ritardarla il più possibile. Per avere più tempo a prepararsi.  

 

La Cecoslovacchia era il cuore industrializzato dell’Europa. Nel ’40 avrebbe costruito un panzer su tre di quelli in dotazione alla Wehrmacht

             

La Cecoslovacchia è una favola che ricorreva spesso nelle storie che mi raccontava mio padre quand’ero bambino. Ci aveva vissuto a lungo. Per lui, ebreo errante nato sulle rive del Danubio rumeno, cresciuto a Istanbul, era una terra felice, il paese più libero e avanzato al mondo. In America non c’è mai stato. Praga per lui era più di Parigi. Malgrado le diffidenze che percepiva da parte dei cechi nei confronti di chi parlava tedesco. Lui, come Kafka, parlava tedesco, non ceco (per l’esattezza parlava yiddish, che è in pratica un dialetto tedesco). Era rimasto cittadino turco. Fu richiamato alle armi quando la Turchia mobilitò con l’approssimarsi della guerra. A malincuore dovette lasciare Praga, gli affetti, l’Europa, il lavoro da interprete alla Skoda, per andare a fare il soldato in Turchia. Gli sarebbe costato quattro anni di lavori forzati a costruire strade in Anatolia, in un battaglione di punizione, senza armi, di soli ebrei e armeni, pronto ad essere internato nel caso che la Turchia fosse entrata in guerra a fianco della Germania. Fu la sua fortuna. Aveva lasciato Praga poco prima che arrivassero i nazisti. Altrimenti sarebbe certamente finito ad Auschwitz. E io non sarei nato.

                                                                                                                                                                                                                  
Quella di Trump è una giravolta completa rispetto alle posizioni che ha avuto l’America da 80 anni, quasi un secolo a questa parte. Doppio salto mortale, con calcio in faccia agli amici. Uno schiaffo sonoro dovrebbe svegliare. Sono ormai una gragnuola le sberle che gli alleati (o dovremmo dire i nemici?) europei incassano quotidianamente. Fanno più male di quelli di Putin e dei suoi, proprio perché inattesi. Dagli amici mi guardi iddio, che dai nemici mi guardo io. Lo schiaffo della portavoce del ministero degli Esteri russo, Marija Zacharova, già studentessa di cinese a Pechino (dove non pare aver assorbito le sottigliezze della diplomazia cinese), sembra aver svegliato l’Italia. Anzi in apparenza ha compiuto un miracolo: ha unito quasi tutti, governo, maggioranza, opposizione, a difesa del nostro presidente della Repubblica, e dell’onore ferito del nostro paese.

 

                        

Lo schiaffo sonoro, del vice di Trump, J.D. Vance agli alleati europei, appioppato alla Conferenza di Monaco, non aveva svegliato abbastanza l’Europa. Era forse inaspettato. Se uno viene schiaffeggiato, può reagire in due modi: restituendo immediatamente l’offesa, magari con gli interessi; oppure sfregandosi la guancia e meditando vendetta futura. Invece la reazione è stata di smarrimento, come quella di un pugile intontito dal pugno che ha ricevuto, rintronato, indeciso se reagire o mettersi a piangere. Poco ci mancava che porgessero l’altra guancia. Avrebbero dovuto reagire mostrando unità, l’unica dissuasione possibile. E invece si sono lasciati disuniti, ciascuno sulle sue, litigando, su cose che al momento neppure esistono, tipo l’invio di truppe europee sul terreno in Ucraina a garantire la pace. 

 

E’ evidente che su questo ci sono posizioni diverse, contrastanti. Che si tratta di un argomento ancora più ostico alle opinioni pubbliche dell’invio di armi. Gli europei in Ucraina non li vuole Putin, non li vuole Trump. Discuterne avrebbe forse senso se la guerra dovesse continuare. Non ne ha alcuno prima di una pace (o anche una tregua) di cui non si intravvedono (o si intravvedono già fin troppo bene) i contorni. Ma dividersi su qualcosa che non esiste è come dirgli: vedete che siamo divisi su tutto. Non era il consesso giusto, la lista degli ospiti, e ancora più quella degli assenti, era malissimo assortita. Su questo ha ragione Giorgia Meloni. Fatto sta che sono riusciti a fare peggio ancora che all’altra Monaco, quella seria, che nel settembre 1938 diede il via libera all’appropriazione della democratica Cecoslovacchia da parte della Germania nazista, e poi alla Guerra mondiale. “Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra” è la frase lapidaria attribuita a Churchill a proposito degli accordi di Monaco. E’ dubbio che lui l’abbia mai pronunciata. Ma riassume la sostanza.

  

Appeasement è da allora diventata una parolaccia. Si potrebbe rendere in italiano come pacificazione, ma ha assunto piuttosto il senso di accomodamento, acquiescenza, resa al prepotente, accomodamento delle sue mire, rabbonimento. E’ stata richiamata più volte. A proposito e a sproposito. In genere per giustificare guerre e risposte aggressive a minacce vere o supposte. In America fu evocata per giustificare la guerra in Vietnam, poi la guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein. Per una delle bizzarre, ma non infrequenti, giravolte della storia, ora gli si ritorce contro. Cosa che a Trump, che si atteggia ostentatamente a rivoluzionario, dice di voler rivoltare come un calzino l’America – le sue istituzioni, i contrappesi costituzionali, e pure la sua politica estera – non fa né caldo né freddo. 

 

A Donald Trump non fa né caldo né freddo che si parli di “appeasement”. Però si atteggia ostentatamente da rivoluzionario

               
Le analogie tra la vecchia Monaco e quella più striminzita, e ancor più triste, dei giorni nostri, si sprecano. Un turbine di missioni diplomatiche, ufficiali e ufficiose, di iniziative che non portano da nessuna parte. Peggio che a ranghi sciolti: ciascuno intento a disfare la tela tessuta dall’altro, più che a costruire una posizione comune. Clamorosi voltafaccia. Attenzione concentrata sull’immediato. Estrema litigiosità tra quelli che avrebbero dovuto stare dalla stessa parte. Pareri e ambizioni discordanti all’interno di ciascuna delle due parti, specie il campo “democratico”. Divergenza, anzi contrapposizione tra quel che si dice e si fa, tra obiettivi dichiarati e obiettivi veri o inconfessabili. Estrema cortezza di vedute in seno ai governi e ai gruppi dirigenti occidentali, preoccupati innanzitutto di conservare nell’immediato il proprio potere, incapaci di pensare al dopo, in una prospettiva di più lungo respiro. Mancanza totale di una visione strategica. Ciascuno pensava solo ai propri meschini interessi. L’Ungheria, la Romania, la Polonia non vedevano l’ora di ritagliarsi le proprie rivendicazioni etniche e territoriali sulla Cecoslovacchia. Se ne sarebbero pentiti solo dopo, a cominciare dalla Polonia, prossimo boccone del Reich. Un terzo incomodo, ma essenziale, di cui non si fida nessuno, che non mostrava mai le proprie carte e restava una sfinge imperscrutabile, era Stalin. Oggi è il ruolo interpretato dalla Cina di Xi Jinping, di cui si può dire con certezza soltanto due cose: che farà i propri interessi, non quelli di nessun altro; che è indispensabile, sarà determinante per qualunque composizione duratura e stabile delle crisi in corso, qualunque ne siano gli esiti.

A Monaco nel settembre 1938 non c’erano né gli Stati Uniti, né l’Unione sovietica. Stalin a dire il vero ci aveva provato. La linea ufficiale era che della questione dei Sudeti si facesse carico l’intera comunità internazionale, attraverso la Società delle Nazioni di Ginevra. C’era stata anche una proposta più praticabile. Mosca aveva perorato, attraverso l’ambasciatore a Londra, Maiskij, che fossero almeno invitate tutte le parti interessate, in particolare la Cecoslovacchia (e implicitamente anche Mosca).

Gli avevano risposto picche. Roosevelt aveva rifiutato il ruolo da mediatore che gli veniva sollecitato dai britannici. Si limitò ad esprimere ai cechi “la profonda solidarietà del popolo americano per la situazione estremamente difficile in cui versa il vostro popolo”. Almeno non gli disse che era tutta colpa loro. Poi inviò un messaggio a Hitler in cui gli chiedeva di “regolare pacificamente la questione”. Belle intenzioni, ma di nessuna conseguenza pratica. Aveva gatte da pelare in casa. L’opinione pubblica americana, aizzata dai signori dei media di destra, vedeva come il fumo negli occhi qualsiasi intervento nelle beghe europee. Figurarsi “mandare a morire i nostri ragazzi” in Europa come era successo nella Grande guerra. I signori delle ferriere e della finanza, irritati con Roosevelt per il New Deal, già assaporavano gli affari con la Germania nazista. 

C’era invece Mussolini, che fece bella figura (e si guadagnò un breve momento di popolarità nell’opinione pubblica inglese, dopo l’avversione suscitata dalla conquista dell’Etiopia) credendo (o facendo finta) di moderare le pretese di Hitler, convincerlo a non passare subito alle vie di fatto. Era riuscito, al di là delle sue stesse aspettative, a ritagliarsi un ruolo di “ponte” tra i litiganti. Era una grande, forse l’ultima occasione. O forse no, Hitler aveva già deciso, e non sarebbe bastata l’affinità ideologica tra le due dittature a fargli cambiare idea. Comunque il ponte era avariato, le fondamenta erano marce. Non funzionano le mediazioni in cui gli altri sospettano che tu tifi per una delle parti. Hitler aveva abbindolato Mussolini. I suoi irridevano spudoratamente gli italiani. Quando, meno di un anno dopo, fu chiaro che Hitler si sarebbe preso non solo i sudeti ma tutta la Cecoslovacchia, Mussolini era furibondo. I corridoi di Palazzo Venezia risuonavano delle sue invettive contro i tedeschi “mascalzoni e straccioni”. Ma aveva già finito col legarsi a filo doppio con Hitler, fino a trascinare poi l’Italia nel baratro della Guerra mondiale. Fece convocare l’ambasciatore tedesco da Ciano per dirgli: “Noi non possiamo cambiare politica, perché non siamo delle puttane”. Non c’è probabilmente maggiore umiliazione per una puttana che farsi dire dal cliente che non gli serve più. 

 

La gloria di Mussolini nel ’38 come mediatore. Ma Hitler lo aveva abbindolato. I suoi irridevano spudoratamente gli italiani

                       
I cechi non erano ammessi alla conferenza. Vennero convocati solo intorno alle 2 del mattino del 30 settembre, poco dopo la firma dell’accordo che li aveva svenduti. Quando il ministro degli Esteri Masaryk chiese se si aspettavano una risposta da Praga, gli risposero crudelmente, seccati, che non si aspettavano proprio nulla. Non era un prendere o lasciare. Era un prendere atto e basta. Era la fine della Repubblica cecoslovacca. Con la perdita della formidabile “linea Maginot” che separava i territori dei Sudeti dal confine con la Germania non le era più possibile nemmeno provare a difendersi.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  
Della Monaco di un tempo, delle sue premesse, del contesto, delle personalità maggiori (e soprattutto di quelle minori, poco conosciute ai più), che ne furono protagonisti (o si diedero da fare per evitare) quel disastro, dà conto magistralmente, puntualmente, con rigore e mole impressionante di documentazione, un libro fresco di stampa di Maurizio Serra: Scacco alla pace. Monaco 1938 (Neri Pozza, novembre 2024). Le 500 pagine del volume sono piene di nomi e fatti. E’ un lavoro da storico serio, non da giornalista. Non si fanno analogie dirette all’attualità. Ma non può fare a meno di sollevarle il lettore.