E adesso basta, separate le carriere
I pm fanno politica? Bene. Allora siano sottoposti alla politica
Dopo venticinque anni d’incursioni giudiziarie, salti nei cerchi di fuoco, intrecci sempre più inquietanti tra procure e giornalisti, arrivati al climax dell’indagine sull’inchiesta Consip, che sembra la sceneggiatura di un thriller fantapolitico – con giornalisti, carabinieri e magistrati che sembrano lavorare in pool per terremotare il governo del paese (a proposito: si veda sul dizionario la definizione del sostantivo “eversione”) – raggiunto insomma un tale livello di sputtanamento e di compromissione del sistema inquirente italiano, viene da dire, con una certa dose di fatalismo e un sospiro, quasi facendo spallucce: visto che alcuni pm fanno politica, e a quanto pare non c’è modo di impedirglielo, allora separiamo le carriere, distinguiamoli dai giudici, e mettiamoli finalmente a diretto contatto con la politica. Lì dove evidentemente già stanno. Insomma mettiamo i pubblici ministeri alle dipendenze dell’esecutivo, come accade in molti altri paesi del mondo occidentale, nazioni, come la Francia, da cui potremmo prendere esempio in materia di limpidezza dei comportamenti istituzionali, efficienza democratica e bilanciamento dei poteri.
E certo questa è una vecchia idea, una soluzione radicale – ma quali sono le alternative? – che la magistratura organizzata in questi anni ha sempre respinto con forza, mobilitando lo sdegno dell’opinione pubblica cosiddetta sana e impegnata, spalleggiata da quei famosi giornaloni del buon senso democratico e civile. È un’idea che veniva dal mondo di Berlusconi – orrore! – era considerata alla stregua di un’azione punitiva da parte del Caimano nei confronti della libertà e dell’indipendenza della magistratura, largamente – fin troppo – intesa. Ma stanno davvero così le cose? Quali poteri sono davvero sotto scacco in Italia, da almeno venticinque anni? L’esecutivo o il giudiziario? Il legislativo o il giudiziario? La risposta è sotto gli occhi di chiunque non sia un fanatico, o un sepolcro imbiancato. La risposta è davanti agli occhi di ciascuno, adesso forse più che mai, nei giorni in cui la procura di Roma indaga sull’indagine dai contorni perlomeno discutibili del pm Woodcock, mentre in Parlamento, dal 2013, il partito che ha più scranni di tutti è una forza che accompagna il culto zelota delle manette all’idea perniciosa che la democrazia rappresentativa (cioè il Parlamento) sia un concetto superato. E sarebbe il potere giudiziario quello in pericolo? Ma per favore.
E allora visto che i magistrati con il loro autogoverno non riescono, o non vogliono, “autoriformarsi”, come si ripete noiosamente da sin troppo tempo, dev’essere il potere legislativo, cui questo compito spetta per diritto costituzionale, a riequilibrare i pesi falsi della nostra povera Repubblica impazzita. Che si separino le carriere! I pm saranno avvocati dell’accusa, in diretto contatto con la politica che già praticano, e non più circonfusi da quell’alone di finta terzietà e di rispetto istituzionale, se non sacrale, che dovrebbe evocare la parola “magistrato”. Poi ci saranno i giudici. I magistrati, quelli cui, non a caso, gli anglosassoni mettono la parrucca e il tocco sulle spalle. Ma che davvero siano magistrati. Silenti, nelle loro torri eburnee.