Viva le inchieste senza veline delle procure
La Stampa, le notizie smentite sulla vendita del Milan e i tic pistaroli
Così evidentemente vittima del principio tutto italiano e distorto secondo il quale “non c’è vera inchiesta senza il supporto di una procura”, la Stampa, quotidiano che amiamo diretto dal bravo Maurizio Molinari, sabato scorso si è consegnata a un pasticcio. Avevano un buono spunto, hanno capito come molti altri che la storia della vendita del Milan ai cinesi presenta dei tratti non lineari, ma invece di fare come avrebbero fatto in qualsiasi giornale del mondo, ovvero anziché avere il coraggio di costruire una propria inchiesta legittimata non dallo spiffero di una procura ma dalla forza delle proprie fonti, hanno montato un pezzo nebuloso, pieno di allusioni, che, maneggiando un po’ liberamente l’esplosivo reato di “riciclaggio”, si apriva con queste esatte parole: “La procura di Milano apre un’inchiesta sulla presunta vendita gonfiata del Milan”. La procura di Milano, dunque. L’ufficio giudiziario che nel giro di qualche ora, per bocca del procuratore della Repubblica in persona, Francesco Greco, attraverso l’Ansa ha poi seccamente smentito di aver mai aperto un procedimento nei confronti di qualcuno, nemmeno di ignoti. Non sappiamo se un domani ci sarà l'inchiesta, sappiamo che al momento una possibile inchiesta giornalistica costruita sulla presenza di un'indagine in corso è stata smentita.
Al di là delle facili ironie che si potrebbero fare (in quello stesso giorno Gianni Riotta, firma principe del giornale, veniva nominato dalla Commissione europea all’interno del “Gruppo alto livello per la lotta alle fake news”) – e tralasciando persino la leggerezza molto poco anglosassone con la quale in campagna elettorale un giornale che ha la fortuna di avere persino “un garante dei lettori” ha usato la parola riciclaggio associandola al nome di Berlusconi – qui si vuole dire un’altra cosa. Ovvero segnalare una piccola malattia, che anche la Stampa ha spesso combattuto, del giornalismo pistarolo che fa dell’Italia un paese in cui la figura del “giornalista d’inchiesta” è spesso associata a quella del giornalista che copia incolla intercettazioni telefoniche offerte da una procura.
Il problema è serio e c'è poco da ridere: che senso ha trasformare i cronisti della giudiziaria in portavoce – e porta interessi – di magistrati poco legati ai princìpi di riservatezza e segreto istruttorio? Un tempo i giornali costruivano inchieste sulle quali poi le procure aprivano indagini. Oggi i giornali tendono a essere legittimati a fare inchieste solo se hanno il bollino di una procura. Prima della prossima inchiesta, conviene pensarci su