La pericolosa sentenza sul caso Cappato
Il sistema giudiziario si mette al servizio di una battaglia politica. Di nuovo
Il processo a Marco Cappato per aver aiutato il suicidio di Dj Fabo è stato un processo anomalo: era iniziato con un’autodenuncia dell’esponente radicale. Dopo un primitivo rifiuto a incriminarlo, era iniziato il 6 novembre scorso. Nel corso del dibattimento sono stati molti i momenti propagandistici, a cominciare dalla proiezione di un’intervista rilasciata dal suicida. C’è stata una sostanziale complicità tra accusa e difesa, nel comune intento di sostenere non solo la liceità del comportamento specifico di Cappato, ma l’incongruenza della legislazione che vieta l’eutanasia. Insomma, Cappato ha usato il procedimento giudiziario per sostenere una tesi politica, con il concorso dell’accusa, il che rende piuttosto ambigua tutta la vicenda giudiziaria.
Alla fine, invece dell’assoluzione ampiamente prevista, la titolare dell’accusa Tiziana Siciliano ha chiesto alla Corte di appellarsi alla Consulta perché definisca incostituzionale la legge che considera un reato l’aiuto al suicidio. Il tribunale ha accettato la richiesta e alla fine c’è stata una stretta di mano, largamente diffusa dai media tra accusato e pubblico ministero. Da una parte ammiriamo l’abilità con cui Cappato è riuscito a usare il sistema giudiziario per ottenere il suo scopo di fare propaganda all’eutanasia, dall’altra, però, si deve constatare che anche per questa via si tende ad attribuire obliquamente alla magistratura la funzione legislativa. In passato si sosteneva che questa “supplenza” era resa necessaria dall’incapacità della politica di affrontare il problema. Ora, dopo che è stata approvata una legge sul fine vita, anche questa – peraltro discutibile giustificazione dell’invasione di campo – è caduta. A Cappato non bastano le forme di eutanasia, attiva e passiva, indirettamente introdotte dalla nuova normativa. Vuole che l’eutanasia diventi un diritto: naturalmente ha diritto a svolgere la sua battaglia, ma non si capisce perché il sistema giudiziario debba mettersi al servizio di una battaglia politica di parte. L’idea che sia la Consulta e non il Parlamento la sede della decisione legislativa è pericolosa oltre che lesiva dell’equilibrio tra i poteri dello stato, il che rende assai discutibile l’andamento e l’esito del processo appena concluso.