L'incubo di un mondo disegnato a immagine di Davigo
Agenti provocatori, molte manette, niente stato di diritto
Roma. Poiché non maneggia le astrattezze delicate del dubbio, ma vive di sole certezze, allora dice con svagata innocenza che “l’Italia è corrotta e gli agenti provocatori sono indispensabili”. E mentre pronuncia queste parole, intervistato da Repubblica, lascia pure intendere che i cauti, gratta gratta, sono dei mezzi collusi. E insomma per il dottor Piercamillo Davigo tutti quelli che un po’ temono la figura dell’agente provocatore, l’incaricato dallo stato di misurare il grado di corruttibilità e integrità morale di ciascuno di noi, ebbene tutte queste persone, sotto sotto, giudici, avvocati e professori di Diritto, sono in realtà degli amici dei criminali. E’ un’evoluzione di quanto diceva padre Pintacuda, il gesuita palermitano secondo il quale il sospetto è l’anticamera della verità: dubbio, cautela, limiti e garanzie non sono che il lubrificante della delinquenza.
E così, di conseguenza, il dottor Davigo finisce col disegnare nell’aria i tratti del suo vero bersaglio, che non è certo il delinquente (quello è solo una questione di tempo: verrà arrestato), ma è piuttosto un tipo che somiglia a Davigo, che si muove nel suo stesso ambiente, eppure la pensa in modo diametralmente opposto, cioè Raffaele Cantone, il capo dell’Autorità anticorruzione, che tre giorni fa scriveva al Corriere della Sera: “Uno stato che mette alla prova il cittadino per tentarlo e punirlo se cade in tentazione non riflette un concetto di giustizia liberale”. Non a caso, allo stato di diritto citato da Cantone, Davigo contrappone su Repubblica la mostruosità del Leviatano: “Thomas Hobbes ha scritto che il termine tirannia significa né più né meno ciò che significa sovranità. Solo che chi è in collera con il sovrano lo chiama tiranno”. E insomma Locke, dice Davigo, può andare a farsi friggere, tutte bazzecole, sottigliezze: la tirannia e il totalitarismo non esistono di per sé, sono soltanto nell’occhio di guarda. Dunque se hai paura dell’agente provocatore è perché temi di essere scoperto. E infatti per il dottor Davigo i controlli preventivi, quelli messi in campo dall’Anac, sono una complicazione inutile, solo un impedimento al libero sfogo delle manette, quasi una scusa per non arrestare i delinquenti. Le cose dovrebbero andare per le spicce, poche ciance, dice Davigo: “Per contrastare la corruzione bisogna mandare i poliziotti a offrire denaro ai politici e arrestare chi accetta”. Perché fare mille leggi, codici e controlli, quando basta avere in una tasca la mazzetta e nell’altra le manette? Perché evitare i crimini, quando puoi indurli?
Lo chiamano il dottor sottile, ma forse il dottor Davigo non è poi così sofisticato. In diverse occasioni ha lui stesso raccontato che il diritto, più che averlo appreso dai codici di procedura e dai testi universitari, lo ha imparato da bambino a suon di ceffoni. “Quando avevo cinque anni mi hanno insegnato in una sola occasione due concetti giuridici fondamentali. Giocavo a tirare i sassi contro un muro. E mi hanno detto ‘smettila che finirai per rompere un vetro’. Io ho continuato, finché non mi è arrivato un ceffone tremendo. Accompagnato dalla frase: ‘Così impari’. Questa è la funzione rieducativa della pena. Io mi sono messo a piangere dicendo: ‘Non l’ho mica fatto apposta’. A quel punto me n’è arrivato un altro più forte: ‘Ci mancherebbe!’. E lì ho capito la differenza tra dolo e colpa”. Poi da adulto il dottor sottile ha sostituito gli schiaffi con le manette. E con la storia dell’agente provocatore adesso fa un ulteriore passo in avanti. Lui non dice ai bambini di non tirare le pietre, ma gliele offre per vedere se meritano di essere arrestati.
L'editoriale del direttore