Una controstoria
La Trattativa stato mafia: una boiata
Mori, De Donni, Subranni, Dell’Utri. Tutti assolti in appello. Ma non serviva una sentenza per mettere a nudo l’imbroglio raccontato per anni a reti unificate da giornali, talk e pm à la page
La mastodontica inchiesta sulla Trattativa – una boiata pazzesca l’aveva definitiva, su questo Fogliuzzo, Giovanni Fiandaca, ordinario di Diritto penale – è naufragata definitivamente. È rimasta in piedi dieci anni, ma ieri, poco prima delle 18, il presidente della Corte d’appello di Palermo ha letto la sentenza di assoluzione per tutti gli uomini dello Stato che questo processo aveva gettato nel fango. Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, alti ufficiali del Ros al tempo delle stragi di mafia, escono a testa alta. È stato assolto anche Marcello Dell’Utri, ex senatore di Forza Italia, indicato dall’accusa come il portaordini dei boss nel governo di Silvio Berlusconi. La Corte, presieduta da Angelo Pellino, ha confermato solo la condanna a 27 anni di Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, patriarca dei sanguinari corleonesi, e quella a 12 anni del medico Antonio Cinà, la cui appartenenza a Cosa nostra è risultata chiara al di là di ogni ragionevole dubbio. I giudici hanno accertato che i clan si sono mobilitati per esercitare, con le stragi, pressioni sugli organi dello Stato ma hanno escluso categoricamente che i due mafiosi avessero stabilito un patto scellerato con i rappresentanti delle istituzioni.
La Trattativa stato mafia oggi, non serviva una sentenza per mettere a nudo l'imbroglio
Con la sentenza di ieri tramonta un teorema. Escono puliti come l’aria tre investigatori che hanno tentato in tutti i modi di arginare la violenza mafiosa che tra il maggio e il luglio del 1992 ha fatto saltare in aria con il tritolo prima il giudice Giovanni Falcone, trucidato con la sua scorta sull’autostrada di Capaci, e cinquanta giorni dopo, Paolo Borsellino, assassinato nell’inferno di via D’Amelio. Per fermare quel fiume di sangue Mori, Subranni e Di Donno avviarono persino un colloquio con Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo, legato a doppio filo ai corleonesi. Speravano di trovare una strada che consentisse loro di accerchiare la roccaforte dei boss, di arrestare Bernardo Provenzano, amico intimo di Ciancimino, e attraverso Provenzano catturare il capo dei capi, Totò Riina. La manovra è riuscita. Nel gennaio del ’93 gli investigatori del Ros individuano la villa del boss, lo seguono fino alla rotonda della circonvallazione di Palermo, accerchiano la Citroën e gli stringono le manette ai polsi. Un’operazione da medaglia d’oro. Invece da lì sono cominciati i guai.
Succede che un magistrato coraggioso, chiamiamolo così, rispolvera un vecchio fascicolo denominato “sistemi criminali”, un contenitore dove c’era tutto e nulla: mafia, servizi deviati, massoneria. Quel magistrato si chiamava Antonio Ingroia, era procuratore aggiunto di Palermo. Gli piaceva muoversi tra i palazzi del potere per trovare trame oscure e registi occulti. Aveva inchiodato già Bruno Contrada, già vicequestore di Palermo e agente del Sisde; e aveva pure crocifisso Dell’Utri, messo già sotto accusa dal procuratore Gian Carlo Caselli nei primi anni Novanta. Non gli sembrò vero di costruire l’inchiesta del secolo, quella che avrebbe fatto tremare i piani alti dei palazzi romani, quella che avrebbe reclutato giornali e giornalisti d’alto rango, quella che gli avrebbe consentito di interrogare persino il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che gli avrebbe dato gloria e prestigio davanti a mezzo mondo, dall’America al Guatemala.
Servivano almeno due attrezzi di scena. Ma l’intrepido Ingroia non ebbe esitazioni. Reclutò Massimuccio Ciancimino, figlio di Don Vito, e lo promosse a “icona dell’antimafia”, tra gli applausi e i baci di Salvatore Borsellino, fratello del giudice assassinato in via D’Amelio. Il giovanotto aveva un problema: voleva recuperare il malloppo nascosto dal padre e per concludere l’operazione aveva bisogno di ripulire il proprio nome e la propria immagine. Ingroia era lì, pronto per verbalizzare. Mamma comanda e picciotto va: Massimo Ciancimino diventò – scrissero proprio così i chierici della procura – un fiume in piena e raccontò tutto quello che i magistrati coraggiosi volevano sentirsi dire. Serviva solo un articolo del codice penale – il 328, attentato agli organi dello Stato – che prevedesse un processo in Corte d’assise, con la giuria popolare facile. E nacque così il processo della Trattativa.
Siamo nel 2012. Ingroia e Ciancimino corrono da un talk-show all’altro, scrivono libri, rilasciano interviste, girano in lungo e in largo per l’Italia. La loro popolarità non conosce confini. Ciancimino crede di toccare il cielo con un dito e si abbandona a tutti gli azzardi. Per non farsi mancare nulla, tiene ventitré candelotti di tritolo nel giardino di casa e confeziona anche carte false pur di calunniare i nemici del padre, a cominciare da Gianni De Gennaro, ex capo della polizia. Ingroia invece tenta il colpo grosso. Nel 2013, alla vigilia delle elezioni nazionali, fonda un partito e scende in politica con l’ambizione di diventare presidente del Consiglio. Naufraga in uno zero-virgola, e non gli resta altra via se non quella di lasciare la magistratura e di dedicarsi al mestiere di avvocato.
Ma lascia in eredità l’inchiesta a un altro magistrato coraggioso. A Nino Di Matteo, pm tenace, ambizioso e molto apprezzato da Beppe Grillo che proprio in quell’anno comincia, col vaffa, la sua scalata al potere. Che si vada alla celebrazione del processo è ormai scontato: il gip, Piergiorgio Morosini, preso dal pensiero di conquistare un seggio al Csm non si lascia distrarre e firma il rinvio a giudizio. Per cinque anni l’aula bunker dell’Ucciardone diventa il teatro delle evanescenze. Se Massimo Ciancimino ha una titubanza, lo soccorre senza problemi Giovanni Brusca, il boia di Capaci, il boss che ha fatto sciogliere nell’acido un bambino di 12 anni, e che in cambio di inimmaginabili privilegi è diventato un pentito di professione: abilissimo nel dire e non dire, furbissimo nel modulare i ricordi secondo i tempi giusti e nel capire al volo che cosa serve ai magistrati per consolidare la boiata pazzesca.
L’uomo di punta resta comunque Nino Di Matteo. E’ il pm più popolare d’Italia: oltre cento comuni gli hanno assegnato la cittadinanza onoraria, dispone di un giornale – la Confraternita della Trattativa – che gli assegna sette titoli in prima pagina, gode di ottima stampa, non si perde una trasmissione televisiva, pure le pietre capiscono che è destinato a una carriera folgorante. La sentenza di primo grado – aprile del 2018 – diventa una sorta di referendum su di lui: i giudici popolari non gli fanno certo mancare il loro appoggio. E il presidente della Corte, Alfredo Montalto, non può che confermare il verdetto di condanna. Tutti colpevoli: non solo i boss (nel frattempo sono morti Riina e Provenzano), ma anche gli ufficiali del Ros: 12 anni a Mori e Subranni, 8 anni a Di Donno; anche Dell’Utri, condannato pure lui a dodici anni.
Una macchina perfetta, capace di stritolare chiunque. I coraggiosi della procura non avevano però previsto un dettaglio. Uno degli imputati, Calogero Mannino, l’ex ministro democristiano, accusato di avere dato origine con le sue paure alla Trattativa, aveva scelto il rito abbreviato. E di assoluzione in assoluzione il suo processo era finito in Cassazione. E poiché c’è sempre un giudice a Berlino, la Suprema corte, nel confermare le assoluzioni di primo e secondo grado, è arrivata a scrivere nella sentenza, novembre 2020, che l’impalcatura concepita da Ingroia era semplicemente una montatura, senza prove e senza riscontri. Ha sostenuto pure che i colloqui degli ufficiali del Ros con Vito Ciancimino non erano altro che normali tentativi investigativi finalizzati alla cattura di Riina, Provenzano e la cupola di Cosa nostra.
Giudizi difficili da cancellare. Una batosta difficile da assorbire. Siamo arrivati così alla sentenza di Appello, quella letta dal presidente Pellino ieri sera. Da alcuni giorni era scattato il coro dei chierici. I giornali di punta del giustizialismo avevano tentato le ultime pressioni, agitando lo spettro della impunità. Si era mobilitato anche, con uno strafalcione istituzionale, il presidente della commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra: “La sentenza sarà un macigno”, aveva detto col tono di chi aveva fonti riservate. Ma la Corte aveva davanti la montagna della sentenza Mannino e non sarebbe bastato di certo il parere accomodante dei giudici popolari per scavalcarla. L’assoluzione era pressoché inevitabile. Non solo per gli ufficiali del Ros, ma anche per Dell’Utri.
Per dieci anni la nave ammiraglia della procura di Palermo ha navigato nel mare untuoso delle ipotesi, di un teorema che non aveva né prove né movente. Ha dato onori e lustro ai magistrati che l’hanno portato avanti con tanto zelo e con tanto fervore: Di Matteo è alla Direzione nazionale antimafia e nel frattempo è diventato un autorevole membro del Consiglio superiore della magistratura, mentre Roberto Tartaglia, il giovane pm che lo ha affiancato in aula, è diventato vicecapo del Dap, il potente dipartimento che gestisce il mondo delle carceri. Ci ha guadagnato pure Brusca che nonostante avesse confessato oltre cento omicidi, uno più orrendo dell’altro, si gode già la sua libertà: pensate, dopo ogni dichiarazione compiacente, gli assegnavano un permesso premio. Ne ha totalizzati ottantatré. Ma a parte gli imputati, che hanno perso dieci anni di vita, l’unico a pagare un prezzo è stato Massimo Ciancimino: la calunnia a De Gennaro l’ha messo fuori gioco, l’azzardo del tritolo nel giardino di casa lo ha trascinato in galera.