Editoriali
Perché la sentenza Rigopiano non è “una vergogna”
Dopo l'assoluzione della maggior parte degli indagati sul disastro che causò la morte di 29 persone, la reazione dei parenti delle vittime è stata di rabbia. Che differenza c’è tra giustizia mediatica e stato di diritto. La lezione di un giudice
La sentenza per il disastro di Rigopiano, che causò la morte di 29 persone sei anni fa, ha assolto la maggior parte degli imputati, compreso l’allora presidente della provincia e il prefetto di Pescara, e ne ha condannati cinque. La reazione dei parenti delle vittime è stata di rabbia e indignazione, persino di minacce al giudice Gianluca Sarandrea. La sentenza sarà più comprensibile quando saranno depositate le motivazioni, ma è chiaro che l’impostazione della procura, che aveva chiesto pesanti condanne per tutti, è stata ritenuta debole, priva di prove che convalidassero l’esistenza del reato più grave, quello di disastro colposo.
La procura ha annunciato che farà ricorso e nei prossimi gradi del processo si verificherà se la sentenza attuale sarà confermata o riformata. Quello che dovrebbe far riflettere, al di là del percorso giudiziario ancora complesso, è il ruolo che ha avuto il processo mediatico, che con le sue esasperazioni e l’attribuzione di responsabilità senza prove, ha creato nell’animo dei parenti delle vittime la sensazione di aver diritto a una riparazione, il che poi quando queste illusioni sono state deluse ha portato alle reazioni commisurate all’intensità della campagna accusatoria.
Sono proprio loro, i famigliari delle vittime, ad aver subìto il danno maggiore dall’anticipazione e dalla “sostituzione” del processo mediatico a quello giudiziario. Non è la prima volta e non sarà l’ultima in cui una sentenza viene accolta dalle grida di “vergogna” perché non corrispondono alle aspettative create dalla grancassa giornalistica e televisiva. Anche questo è un problema della giustizia, perché quando si crea un clima in cui un magistrato può temere che una sentenza basata sull’esame oggettivo delle prove possa metterlo in una posizione difficile c’è il rischio che qualcuno ceda all’implicita intimidazione.
Sarandrea non si è fatto intimidire e ha giudicato sulla base delle risultanze e non delle emozioni: ha fatto bene e merita il rispetto dovuto a chi compie con scienza e coscienza il proprio lavoro. Ora tocca all’Associazione magistrati difenderlo da insulti e minacce che mettono in dubbio non il merito del giudizio, il che è sempre possibile, ma la correttezza del magistrato.