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Il punto

Cosa ci dice, sull'Italia, una procura che si pone contro la libertà di stampa

Gian Domenico Caiazza

La parola magica che la magistratura italiana sfodera puntualmente non appena si materializzi anche la sola ipotesi di un giudizio, di una valutazione critica dell’operato professionale delle toghe: delegittimazione

"Delegittimazione": è questa la parola magica che la Magistratura italiana (e il mondo mediatico e politico che la sostiene con passione) sfodera puntualmente non appena si materializzi anche la sola ipotesi di un giudizio, di una valutazione critica dell’operato professionale delle toghe. I test psico-attitudinali per aspiranti magistrati? Delegittimano la magistratura. L’introduzione del fascicolo delle performance di ogni singolo magistrato? Delegittima la magistratura. Il referendum sulla responsabilità civile? Delegittima la magistratura. L’articolo di Ermes Antonucci su alcuni magistrati della Procura di Firenze? Delegittima la Magistratura. E sì, perché una volta che ci hai preso la mano, non stai lì a distinguere tra il varo di una legge, la promozione di un referendum e la pubblicazione di un articolo su un quotidiano.

 

 

Ma di quale colpa atroce si sarebbe macchiato il bravo e scrupoloso Ermes Antonucci? Quali micidiali strali avrebbe scagliato contro alcuni magistrati fiorentini, al punto da indurre il Procuratore Capo a richiedere al CSM addirittura “l’apertura di una pratica a tutela” (altra formula iconica che pure la Magistratura ama usare per ribadire il solito concetto, e cioè: “stammi alla larga, non ti azzardare”)? Per esempio (che scelgo perché lo conosco più da vicino) ha ricordato che un magistrato di quella Procura ha imbastito da anni e anni una mega-indagine su una fondazione politica in base alla decisiva premessa, logica e giuridica, che essa sarebbe in realtà un indebito travestimento di una corrente di partito al fine di eludere la legge sul finanziamento pubblico. Senonché, abbiamo perso il conto di quante volte la Cassazione, annullando sequestri a ripetizione, ha ribadito a quei magistrati “nossignore, è un’idea bislacca, è una Fondazione politica, non una corrente di partito travestita”. Invece di dire, magari alla quarta tirata di orecchie da parte dell’ennesimo (e sempre diverso) collegio in Cassazione, “ok, prendo atto, viene meno la premessa teorica dell’inchiesta, archivio”, quel magistrato va avanti, senza fermarsi nemmeno dopo che la Corte Costituzionale lo ha severamente redarguito per avere illegittimamente fatto uso di conversazioni digitali di quel medesimo parlamentare, senza autorizzazione della Camera di appartenenza.

 

 

Il Procuratore capo di Firenze non viene sfiorato dall’idea che possano essere questi pervicaci comportamenti a delegittimare l’ufficio, nossignore. L’oltraggio proviene da Antonucci che li racconta. E che informa altresì il lettore che quel magistrato è lo stesso che ha nel contempo inquisito grossomodo l’intera famiglia sempre, s’intende, di quel medesimo parlamentare. Invece di chiedersi, il Procuratore capo, se tante volte non sarebbe stato meglio, per ragioni di opportunità e per non alimentare polemiche o pensieri impuri (tipo quelli che sono balenati nella testa del buon Antonucci), che la esplorazione dell’albero genealogico di quel parlamentare fosse almeno affidato a qualche altro magistrato dell’Ufficio, anche alla luce delle sistematiche debacle delle relative azioni penali, cosa fa? Chiede l’apertura della pratica a tutela, perché l’infido giornalista farebbe “trasparire una volontà persecutoria” dell’invece inappuntabile inquirente. A me pare ci siano tutte le premesse per trasecolare, o almeno per stupirsi -quasi affascinati- da una manifestazione così eclatante di dispercezione della realtà, e di inversione della logica delle cose. Poi però quel mezzo sorriso incredulo si spegne, ascoltando lo strano silenzio che ha accolto la vicenda. Per carità, non per aprire “pratiche a tutela”, ma insomma l’Ordine dei Giornalisti una mezza parola non ritiene di doverla dire?

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