Gianfelice Rocca - foto via Getty Images

Editoriali

San Faustin: un processo che manco era da cominciare

Redazione

La Cassazione chiude definitivamente il "caso Petrobas" e segna un altro grande flop della procura di Milano: si conferma la sentenza del tribunale milanese che aveva prosciolto gli amministratori della holding con la motivazione di "non doversi procedere"

Altro grave insuccesso per la procura di Milano, e soprattutto per quel suo pervicace “metodo”, molto in voga soprattutto negli anni scorsi, di voler perseguire oltremare presunte corruzioni internazionali, laddove non ce n’è ombra e, spesso, non c’è neppure giurisdizione. Il disastro dell’inchiesta Eni-Nigeria è il più noto ma non è il solo, purtroppo. Ieri la Corte di Cassazione ha chiuso definitivamente il cosiddetto “caso Petrobras”. Confermando la sentenza del tribunale di Milano, del 2022, che aveva prosciolto per “non doversi procedere” Gianfelice Rocca, (presidente anche del gruppo ospedaliero Humanitas ed ex presidente di Assolombarda), il fratello Paolo e Roberto Bonatti: amministratori e soci di riferimento di San Faustin, la holding del gruppo Techint. La procura di Milano aveva deciso di indagare su una presunta corruzione internazionale in Brasile da oltre 6 milioni di euro, per fare aggiudicare a una controllata del gruppo una fornitura. Ma per i giudici quella indagine non avrebbe nemmeno dovuto iniziare, per difetto di giurisdizione.
 

Una vicenda giudiziaria durata nove anni fra indagini e processo, “con grande dispendio di risorse di tutte le parti coinvolte”, scrive in una nota il gruppo San Faustin, dove “per tutte” sottintende anche lo spreco di denaro pubblico. Ora la Cassazione ha confermato la sentenza, il processo per corruzione internazionale in Brasile non sarebbe ma nemmeno dovuto iniziare a Milano. Ma come sempre accade, di fronte alla netta bocciatura delle proprie ipotesi accusatorie da parte del Tribunale, la procura ha voluto opporre ricorso. A firmarlo i due pm Fabio De Pasquale (reduce dalla disastrosa conduzione dell’indagine Eni-Nigeria e recentemente giudicato dal Csm privo dei “prerequisiti della imparzialità e dell’equilibrio”) e Donata Costa (nel frattempo trasferitasi alla Procura europea). Ce ne sarebbe abbastanza per riflettere, alla procura di Milano ma non solo lì, su certi stili di indagini basate più che altro sul pregiudizio.

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