Editoriali
Gestire l'immigrazione è compito del Parlamento, non dei tribunali
L'intervento dei giudici catanesi sulla definizione di paese sicuro è una pretesa onnipotenza che invade i campi della responsabilità politica: questa è una prerogativa degli organismi eletti dalla sovranità popolare
Altri due tribunali hanno emesso sentenze che negano la possibilità di rimpatriare i migranti con procedura accelerata nei paesi considerati sicuri dal governo e inseriti in una lista approvata per decreto lo scorso 23 ottobre. Si direbbe che abbiano fotocopiato le decisioni precedenti, ma in realtà non è proprio così: questa volta si contravviene apertamente a una disposizione di legge emanata dal governo. Secondo il giudice Massimo Escher spetta al magistrato, e solo al magistrato, verificare se un paese possa definirsi sicuro. In pratica si ottiene che sia il singolo magistrato e non il governo a gestire aspetti rilevanti della politica estera. Non si tratta, come dice Matteo Salvini, di “giudici comunisti”, se non altro perché i comunisti, internazionalisti e non cosmopoliti, non hanno mai attaccato la sovranità dello stato (che anzi nei regimi di quel tipo era addirittura gestita in forma assolutistica). Si tratta invece di una pretesa onnipotenza che invade i campi della responsabilità politica, che spetta agli organismi eletti dalla sovranità popolare. C’è da sperare che la Corte di giustizia europea metta fine a questo stillicidio riconoscendo il diritto dello stato italiano, come di tutti gli stati membri dell’Unione, di stabilire le regole per l’accoglienza e per l’espulsione degli immigrati irregolari. Sarebbe grave che questo diritto elementare venisse negato, e questo peraltro aggraverebbe la crisi di credibilità delle istituzioni dell’Unione europea. Si può pensare bene o male della operazione albanese, ma di questo si discute in Parlamento e, alla fine, potranno giudicare gli elettori, come di ogni scelta politica controversa. Che siano settori della magistratura a decidere se una legge deve essere applicata o no, invece, non fa parte della dialettica democratica, ne è anzi una sostanziale negazione.
L'editoriale del direttore