Cosa dicono del Pd e dell'Italia, i voti dei circoli
Renzi prende il 70 per cento, si riprende il partito e la città-simbolo del suo riformismo. Sala (forse) avrà meno grane alla sua sinistra
La battuta che circolava maliziosa già da giorni sulle bocche dei turborenziani milanesi e lombardi “sarà davvero entrato con il lanciafiamme nelle sezioni, Matteo Renzi?”, ha lasciato il posto a più cordiali saluti, e alla giusta concentrazione che, come per le partite importanti, deve precedere la ancora lenta marcia di avvicinamento al big match, le primarie aperte per il segretario (ormai non più candidato premier, in tempi di nebuloso proporzionale) del Partito democratico. E la data è il 30 aprile prossimo.
Ma per una città-simbolo per la costruzione di una nuova sinistra di governo come è Milano, e per la Lombardia che entro un anno dovrà scegliere il suo nuovo governatore, Roberto Maroni permettendo, i numeri parlano decisamente chiaro.
Le votazioni nei 174 circoli di Milano e dell’area metropolitana (57 sono i circoli in città hanno premiato forse oltre le aspettiative la mozione di Matteo Renzi in ticket con Maurizio Martina, ministro dell’Agricoltura e ormai luogotenente di fatto del “partito del segretario” in Lombardia. Andrea Orlando e Michele Emiliano non hanno fatto breccia.
Bisogna leggere per prima cosa i numeri, per capire la dimensione e la direzione degli eventi. Innanzitutto l’affluenza degli iscritti, che segnala un aumento rispetto a quattro anni fa sia in termini percentuali che assoluti, assestandosi al 70 per cento con 7.046 votanti, rispetto al 63,7 per cento e ai 6.951 voti del 2013, pur con una una base di iscritti pressoché identica. In città e nell’area metropolitana, i voti sono ripartiti così fra i tre candidati: Andrea Orlando 2.003 (28.5 per cento), Michele Emiliano 265 (3.8 per cento), Matteo Renzi 4.751 (67.7 per cento).
A Milano città, dove l’affluenza è al 67,1 per vento con 3.066 votanti, Orlando ha avuto il 27.2 per cento, Emiliano il 4.6, Renzi il 68.2. Numeri che fanno dire al segretario metropolitano, Pietro Bussolati, un rotondo “sono molto soddisfatto dei dati sull’affluenza e del livello del dibattito emerso, adesso lavoreremo per rendere il più possibile partecipate le primarie del 30 Aprile”. Se la soddisfazione della componente renziana-riformista è palpabile, la delusione di chi sostiene l’opzione Orlano è evidente, ma a Milano – dove c’è u Consiglio comunale e una giunta da far marciare, e in Consiglio la maggioranza non non è renziana – i toni non sono quelli da “prossima mossa un’altra scissione”, come si è sentito altrove.
C’è però da chiedersi, dopo aver letto i numeri, pur sempre in attesa del big match del 30 aprile, che cosa sia avvenuto e che cosa significhi il risultato milanese. Si possono provare una serie di considerazioni. A partire da una domanda, che ha il suo risvolto nazionale. E che è il tema di fondo: il Pd milanese ha cambiato pelle? Un anno fa, aveva vinto le primarie, abbastanza tranquillamente, un cadidato sindaco renziano, addirittura un manager borghese illuminato e moderato, contro la candidata benedetta da Giuliano Pisapia, Francesca Balzani, e il capo della sinistra Pd, Pierfrancesco Majorino. Beppe Sala vince poi le elezioni contro Stefano Parisi, di poco, ma al termine di una campagna in cui Sala ha sì ricompatto tutta la sinistra cittadina, ma che è stata anche una campagna tutta giocata al centro, tra un liberal riformatore e un liberal popolare. Inimmaginabile nell’Italia di oggi, fuori da Milano. A Milano, Sala sta facendo il suo lavoro. Ma il terremoto del 4 dicembre, con la caduta di Renzi, ha indebolito, o almeno offuscato per un periodo, l’immagine della sinistra riformista che Renzi, tramite Milano, intendeva proiettare sul paese. Sala non si è (fin qui schierato), del resto non è uomo di partito, ma il rapporto con l’ex premier si è logorato, al Lingotto era stato il grande assente. Il sindaco ha dato l’impressione, voluta, di voler cercare di più un rapporto con la sinistra del Pd, e con l’area di Pisapia, che intanto si va organizzando. “Nessun nemico a sinistra”, secondo il vecchio adagio. A costo di rallentare la lunga marcia della sinistra verso il suo sole dell’avvenire liberal-riformista. Ora, seppure i giochi non sono fatti, l’indicazione di che cosa voglia la base del Pd milanese e lombardo s’è fatta evidente. Sala, probabilmente, continuerà a praticare la sua indipendenza di amministratore, ma in complesso anche l’azione della sua giunta riformista avrà meno problemi di coperture politiche – eccezion fatta per alcuni dossier in via di riscaldamento, come il rapporto con i sindacati (vedi sciopero dell’Atm) e la questione dell’immigrazione, su cui l’assessore al Welfare Majorino ha un ruolo chiave.
Il segnale politico però è di carattere più generale. Renzi stravince le primarie degli iscritti, mentre tre anni fa aveva vinto Cuperlo. Nel momento di massima crisi della sua immagine di uomo dell’innovazione e della rottura nel centrosinistra, Renzi prevale nel nocciolo militante del Pd. Cosa è accaduto? E’ una mutazione del segno prevalente nella cultura politica del Pd milanese? E’ al contrario un segnale di perdita (nel senso di abbandono) delle componenti di sinistra? Il Pd è riuscito finalmente (almeno da queste parti) a superare le appartenenze storiche che ne hanno supportato la nascita e i primi dieci anni di vita? E’ compiutamente diventato il partito delle culture riformatrici e della società aperta? A Milano c’è il gruppo dirigente locale renzianamente più vincente del Pd in Italia, e questo è il fatto cui bisogna guardare. Anche ragionando su una possibile candidatura di Giorgio Gori alla presidenza della Lombardia. Un bergamasco che conosce la metropoli, ma sa parlare a Bergamo, Brescia, Varese. Sabato 8 aprile avrebbe dovuto svolgersi un incontro pubblico con Renzi, Sala e Gentiloni che sarebbe, presumibilmente, stata anche un occasione per un endorsement di Sala. Per ora è saltato. Per questioni di agenda, o per ragioni politiche? Quel che succede nel Pd, e nella sinistra di Milano, è sempre anche un segnale per l’Italia.