Le fake news e la guerra in Vietnam
Furono le balle dei media a farci perdere la guerra, scrive il Wall Street Journal (31/1)
Apparentemente dal nulla, un’ondata d’urto colpì il Vietnam del Sud il 30 gennaio 1968. In un assalto coordinato senza precedenti di ferocia e grado, oltre 100.000 soldati vietnamiti e vietcong uscirono dai loro santuari in Laos e Cambogia. E attaccarono più di 100 città in tutto il Vietnam del Sud. I seguenti 77 giorni hanno cambiato il corso della guerra del Vietnam. Il popolo americano è stato bombardato da un flusso notturno di devastanti trasmissioni televisive. Eppure quello che videro era così in disaccordo con la realtà sul campo che molti veterani del Vietnam credevano che la verità stessa fosse sotto attacco”. Così il Wall Street Journal.
“L’offensiva del Tet aveva obiettivi ambiziosi: provocare una rivolta di massa contro il governo, far crollare l’esercito sudvietnamita e infliggere perdite di massa alle forze statunitensi. Gli uomini del Politburo di Hanoi – sapendo che il vero centro di gravità della guerra era a Washington – pensavano che l’attacco alla fine avrebbe fatto vacillare la volontà del popolo americano di combattere. Un componente chiave di questa strategia era il terrore. Migliaia di funzionari governativi del Sud Vietnam, insegnanti di scuola, dottori, missionari e civili ordinari – specialmente a Hue City – furono arrestati e giustiziati in un atto di macelleria non visto spesso sul campo di battaglia. Nonostante la loro ferocia, secondo gli standard militari più obiettivi, i comunisti non raggiunsero nessuno dei loro obiettivi. Ma nei salotti di tutta l’America, le notizie notturne descrivevano una schiacciante sconfitta americana. Il corrispondente del Washington Post a Saigon, Peter Braestrup, concluse che l’evento aveva segnato un grave fallimento nella storia del giornalismo americano. Braestrup ha suggerito che la stampa ha commesso atti di malasanità giornalistica prendendo posizione contro l’amministrazione Johnson e non correggendo il record una volta che la nebbia della battaglia si era risollevata. Queste frettolose supposizioni e giudizi “sono stati semplicemente autorizzati a stare in piedi”.
L’analisi esauriente di Braestrup rimane controversa. Il suo amico e collega del Washington Post, il compianto Don Oberdorfer, attribuiva l’erosione del sostegno pubblico alla credibilità dell’Amministrazione Johnson. L’ufficio del presidente emetteva regolarmente dichiarazioni rosee in contrasto con il flusso e riflusso tattico sul campo di battaglia. Ma fino a oggi è difficile trovare da ridire sull’intuizione conclusiva di Braestrup: l’obbligo professionale dei giornalisti in una società libera è di mantenere la calma e raccontare la storia. Non è, come ha ammonito Walter Lippmann, confondere la “verità” con l’assemblaggio e l’elaborazione di una merce chiamata “notizia”.
Il Foglio internazionale