“L'America non è più eccezionale, è diventata normale. Qui nasce la crisi”
Qual è il motivo del caos della Repubblica a stelle e strisce? Ganesh sul Financial Times avanza l’ipotesi che risieda nella sua “vittoria” e universalizzazione
L’anonimia delle sale del municipio, i giuramenti scanditi con accenti diversi, i rivoli di lacrime sulle guance di tutti i colori: le cerimonie per il conferimento della cittadinanza variano ben poco tra loro”. Così inizia sul Financial Times un editoriale del corrispondente in terra americana, Janan Ganesh. “Questo perpetuo allargamento della nazione si può osservare a Washington, Albuquerque, Dearborn e a San Diego. Si può anche vedere, però, a Dublino, Malmo, Amburgo e Perth. Gli inglesi e i francesi metterebbero in serio dubbio l’asserzione secondo cui la cittadinanza come impegno personale di devozione, piuttosto che di sangue, sia mai stata un’esclusiva degli Stati Uniti. Ma anche se lo fosse, gran parte del mondo ne ha seguito l’esempio. La diffusione di questa e altre idee illuministiche è entusiasmante quanto strana, per una nazione che si è sempre distinta sulla base di esse.
Dal principio, ciò che ha unito i popoli eterogenei d’America era il senso di far parte di un esperimento: di nazionalità civica anziché etnica, di meritocrazia come alternativa all’aristocrazia, di tolleranza religiosa anziché il suo opposto. È tramite questi ideali che gli americani si distinguevano dal Vecchio mondo. Questo elemento di contrasto rimase una viabile base di unità nazionale a ventesimo secolo ben inoltrato. Col passare del tempo però si è indebolito, non tanto per i fallimenti degli Stati Uniti quanto per il progresso realizzatosi altrove. La Prima guerra mondiale immolò alcune delle autocrazie in opposizione alle quali gli Stati Uniti trovavano la propria identità. Dalle ceneri della Seconda guerra mondiale si erse lo stato europeo, moderno e razionale. Dopo l’impero venne l’immigrazione post coloniale.
E dopo il 1989 venne, se non la vittoria assoluta del capitalismo democratico come punto finale degli eventi umani, allora la sua diffusione territoriale. Ci sono tante teorie circa l’attuale sgretolamento della Repubblica americana, sul rancore che sta infestando Washington, ma anche lo sport, l’intrattenimento e altre alcove un tempo a riparo dalla politica. I conservatori puntano il dito contro troppa immigrazione in troppo poco tempo. Altri citano l’assenza di una minaccia esterna al pari dell’Unione sovietica. La spiegazione più di moda al momento è legata all’ascesa dei social media. Tutte queste teorie sono plausibili, ma anche un po’ deboli. Un problema tanto grande potrebbe avere una causa egualmente mastodontica.
E se l’origine del malcontento fosse non il fallimento degli ideali americani, bensì la loro normalizzazione in un territorio più ampio? Come fa una nazione a distinguersi quando ciò che la rendeva unica è diventato luogo comune al punto della banalità? Che cos’è che gli americani hanno in comune tra di loro che molti altri popoli non hanno? Innumerevoli paesi hanno grandi fette di popolazione fatte di migranti, gran parte dei quali è naturalizzata. Innumerevoli paesi hanno economie di mercato con aristocrazie deboli o del tutto assenti. Innumerevoli paesi – oggi la maggioranza, in effetti – sono più o meno democratici. In breve, innumerevoli paesi hanno seguito l’esempio americano. Il problema è la dipendenza degli Stati Uniti da queste insolite caratteristiche per potersi identificare come paese.
Gli altri hanno gli elementi più svariati: storie antichissime, per esempio, o la preponderanza di un gruppo etnico. L’America ha solo i suoi valori e le sue istituzioni. Questo nazionalismo ‘valoriale’ è meno efficace quando il credo in questione è tanto diffuso. Il diritto alla cittadinanza per nascita sul territorio rimane raro al di fuori dagli Stati Uniti, o almeno nell’emisfero occidentale. A parte questo, è difficile pensare ad altri ideali fondativi americani che non si siano diffusi anche altrove. ‘In nessun altro paese della terra’, disse Barack Obama quando era soltanto un semplice senatore, ‘sarebbe possibile avere una storia come la mia’. Non è vero. E non sto dicendo tutto questo per prendere in giro gli Stati Uniti per essere, come cantò Johnny Rotten della sua Inghilterra, soltanto un paese come tanti. Né c’è nulla di male in una nazione tenuta insieme dall’affidabile incollante del mito.
Il mio paese (il Regno Unito, ndt) crede che una copertura sanitaria universale, come la sartoria di qualità, finisca dove inizia il mare. Altri paesi tramandano ai loro giovani estratti accuratamente selezionati della loro storia. La convinzione americana circa l’unicità dei suoi valori è sulla sponda benigna di questo spettro di finzioni. Con l’ignobile eccezione della schiavitù e di Jim Crow, è pur sempre vero che gli Stati Uniti erano più illuminati (o Illuminati) di gran parte dei paesi in molti modi e per lungo tempo, persino nella sfera occidentale. Le politiche per un’‘Australia bianca’ cessarono soltanto negli anni Settanta. La Germania allentò le sue leggi sulla naturalizzazione soltanto sul fare del millennio. Eppure queste rigidità premoderne sono in declino, lasciando gli americani col dubbio, non necessariamente inconscio, di cosa li renda effettivamente americani.
Di tanto in tanto succede che un ben intenzionato politico britannico proponga che una nazione tanto speciale come il Regno Unito celebri i suoi valori condivisi. Qualcuno a quel punto di solito gli chiede di cosa giammai si tratti. Momentaneamente perplesso, il politico in questione tira fuori lo stato di diritto e la democrazia. Il suo interlocutore suggerisce che siffatte istituzioni non sono proprio sconosciute in altri luoghi. Allora si verifica un mormorio di asserzioni sul fatto che noi inglesi non siamo molto bravi a parlare per astrazione, e la discussione viene abbandonata per qualche anno. In un certo senso gli Stati Uniti sono afflitti dallo stesso dilemma. La differenza, come stiamo scoprendo, è l’enormità della posta in gioco”.
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