Il gestore delle crisi
Dopo le elezioni, la palla passerà al presidente della Repubblica. Un ruolo di nuovo molto importante
Professor Cassese, dopo il 4 marzo, giorno delle elezioni, la regia passerà al presidente.
Sì, il presidente è innanzitutto il gestore delle crisi. Il calendario, peraltro, prevede innanzitutto l’elezione dei presidenti delle Camere, una votazione che metterà alla prova le capacità dei “coalition builders” (ammesso che ce ne siano).
Parliamo allora del presidente, della sua figura istituzionale.
Un costituzionalista che tutti ricordiamo con rimpianto, Livio Paladin, ha dedicato a questo istituto costituzionale un accurato scritto e ha notato che è la figura più difficile e sfuggente della Costituzione. Pensi che del presidente si è detto che, come definito nella Costituzione, è un “fannullone”, non ha nulla da fare, e, all’opposto, che ha più poteri del re nello Statuto albertino. Una grande oscillazione di giudizi. Accentuata dal fatto che la presidenza, a sua volta, la macchina del Quirinale, reca forti le tracce del ministero della Real Casa.
Ma sono passati settant’anni, si è accumulata una lunga esperienza: non si sono create convenzioni costituzionali? Non dice proprio lei che il diritto è fatto sia di norme dettate da legislatori, sia di prassi, consuetudini, convenzioni? E c’è stato tempo per storici e giuristi, il tempo necessario per riflettere, ricostruire istituti, lasciare il segno della cultura giuridica, almeno quella che aspira al “sistema”.
Cominciamo da quest’ultima. Vi sono scritti numerosi su singoli presidenti. Un tentativo d’insieme, quello di Baldassarre e Mezzanotte, fermo però a Pertini. Una importante tesi di dottorato francese, di Alessandro Giacone, ferma a Segni. Un recente libro di Pacelli e Giovannetti, a metà tra storia e giornalismo, colmo di episodi illuminanti e di particolari curiosi. Diverse riflessioni di giuristi, da Paolo Barile a Vincenzo Lippolis. Manca un’analisi storico-sistematica.
E le prassi, le consuetudini e convenzioni costituzionali?
Debbo segnalare una ulteriore lacuna, dovuta a diversi fattori. Innanzitutto, proprio la configurazione dell’istituto presidenziale “a fisarmonica” (l’espressione risale a Giuliano Amato) rende difficile disegnare una figura sola, dai tratti caratteristici e ricorrenti. Quindi, sono rilevanti le personalità (pensi a Pertini e a Einaudi, e alla differenza tra i due, per storie personali e carattere), ma contano anche i contesti (un presidente che deve gestire crisi di governo numerose, sciogliere il Parlamento, sarà portato ad agire, sarà sempre sul palcoscenico). Sono importanti anche le diverse fasi dei settennati: consideri che la durata dei presidenti li rende indipendenti dalle maggioranze che li hanno scelti perché il presidente dura 7 anni, il Parlamento un massimo di 5 e che in tutti gli uffici, in tutte le funzioni, si “impara facendo”, per cui c’è un “secondo tempo” in molte presidenze. Ci sono, poi, poteri formali e poteri informali.
Veniamo alle esternazioni.
Brutto termine, e anche impreciso. Si vuol dire che il presidente formula suoi giudizi e indirizzi, comunicandoli, e che sia la formulazione, sia la comunicazione avviene indipendentemente dal governo, nonostante che il presidente sia irresponsabile e che i suoi atti abbiano bisogno della controfirma del governo. Voglio, in generale, dire che vi sono poteri indicati dalla Costituzione e poteri variamente denominati, di consiglio, suggerimento, promozione, “moral suasion”, che non sono elencati. Alcuni presidenti hanno molto usato i primi (Segni, Cossiga), altri i secondi (Pertini, ad esempio).
In concreto, come si sono comportati i presidenti?
Vi sono alcuni che hanno cercato di stabilire un contatto diretto con la società civile e i media: pensi a Pertini, ma prima ancora a Gronchi. Altri che hanno lavorato principalmente nel circuito Parlamento – governo. I primi hanno guadagnato una propria legittimazione popolare, conquistato un potere “extra”. Non dimentichi che un grande giurista come Mario Bracci, scrivendo, nel 1958, a Gronchi, affermava con sicurezza che, grazie anche a rapporti di questo tipo, si potesse transitare senza modificazioni verso una Repubblica semipresidenziale.
Veniamo a noi. E’ stato evocato un “governo del presidente”.
Non siamo ai tempi dello Statuto albertino. Il governo deve avere la fiducia del Parlamento. Deve lavorare ogni giorno con le Camere, raccogliendo il loro consenso. Quindi, non esiste un “governo del presidente”. Ho fatto parte del governo Ciampi nel 1993-’94, e so bene che cosa voglia dire conquistare giorno per giorno l’accordo del Parlamento su ogni provvedimento legislativo, rispondere alle interrogazioni, replicare a critiche e osservazioni in Parlamento. Tutto questo non vuol dire che il presidente sia solo una levatrice. Molti presidenti hanno collaborato alla scelta dei ministri, alcuni hanno suggerito nomi, altri ancora posto veti. Ed è proprio nelle funzioni del presidente il compito di studiare le possibili maggioranze: in fondo, se nominasse un governo che non riuscisse a ottenere la fiducia, anche il presidente dovrebbe registrare uno scacco.
E gli incarichi?
In molti casi, i presidenti hanno compiuto essi stessi consultazioni. In altri, hanno dato incarichi esplorativi, si sono valsi della collaborazione di altri per approfondire le possibilità di formare un governo. C’è, poi, stato il periodo appena finito, nel quale formule elettorali con forti componenti maggioritarie facevano, per così dire, arretrare questo compito presidenziale di regista delle crisi e di levatrice dei governi. Ricordi che, a un certo punto, Berlusconi mostrò insofferenza nei confronti delle procedure di consultazione del presidente, dicendo o facendo dire che non c’era alcun bisogno di consultazioni, essendosi espresso chiaramente il popolo. Ora, sia a causa del tripolarismo, sia a causa della formula elettorale, siamo tornati indietro e il ruolo del presidente ridiventa molto importante.