Tra occasioni perse e còlte, l'incostanza è uno dei nostri mali
Guardare indietro per capire la partita che si sta giocando dal 4 marzo. Parla il professor Sabino Cassese
Professor Cassese, a distanza di un mese dalle elezioni politiche nazionali del 4 marzo, è in corso una grande partita a scacchi, dagli esiti incerti. Corriamo, intanto, il pericolo di perdere l’occasione della ripresa economica in atto, o almeno di coglierla al rallentatore, camminando mentre gli altri corrono?
E’ una bella questione, alla quale proverei a rispondere (o a non rispondere?) guardando indietro, alle occasioni perdute della storia repubblicana, anche perché un bilancio molto acuto e ricco è stato fatto da una quindicina di studiosi sotto la guida di Franco Amatori, nel cinquantunesimo “Annale” Feltrinelli, intitolato “L’approdo mancato”, che contiene un vero e proprio generale esame di coscienza, partendo da quello che promettevano il piano Sinigaglia, l’Eni di Mattei, la Fiat quinta impresa mondiale dell’auto, l’Alfa Romeo di Luraghi, l’Autosole costruita in otto anni, la chimica, i progetti di Reiss Romoli.
Che cosa si impara leggendo il libro?
Come si esauriscono le storie di successo e falliscono i progetti tecnologici di frontiera. La degenerazione dello stato imprenditore asservito alla politica. La prevalenza dell’aspetto congiunturale sulle scelte riformiste nella nazionalizzazione elettrica. La crisi delle grandi famiglie e il capitalismo che non cambia. L’autunno caldo e il “sindacato dei diritti”. La bassa dinamica dei consumi dopo gli anni del boom. La continuazione del divario nord-sud dopo la prima fase della Cassa per il Mezzogiorno. Il successo del nuovo modello distrettuale, ma la sua insufficienza organizzativa e competitiva. La mancanza di regole e il vuoto degli istituti di controllo. L’esplosione del debito pubblico e il vincolo esterno come strategia di ultima istanza. La crisi della classe dirigente negli anni 90. I vincoli di bilancio che non bastano, perché sono necessarie le riforme, negli anni ultimi. Un insieme di fenomeni alla ricerca di una causa.
Ma che richiedono una riflessione sui perché.
Facile a dirsi… Proviamo a elencare. L’esaurimento dell’impulso del Dopoguerra (è noto che le guerre con le loro distruzioni producono effetti successivi positivi). Forse la debolezza di alcune di queste “occasioni mancate” (alcune erano forse un fuoco di paglia).
Una questione di mentalità della classe industriale, pronta a rivolgersi allo stato, e della classe politica, pronta a soccorrere, per lo più in nome della salvaguardia dell’occupazione. Poi, le cause più di fondo, imputabili rispettivamente a politica e società.
Quali?
Uno stato debole e un capitale sociale scarso. Il primo debole per difetto di classe dirigente e di apparati amministrativi. Il secondo scarso per pochezza di capacità associative e scarsa cultura organizzativa.
Una società senza stato, insomma, ma anche uno stato senza società?
Sintesi suggestiva e pericolosa. Elenchiamo alcuni dei mali, sul primo e sul secondo lato. Su quello dello stato, troppo e troppo poco centralismo, l’assenza di tecnici nell’amministrazione, la scarsità di regole (e l’eccesso di quelle inutili), la perenne precarietà dei governi, le vischiosità oligarchiche, le carenze dello stato innovatore. Su quello della società, l’assenza di virtù civiche, il familismo, la cultura rimasta di origine contadina (sono stati assenti i due grandi fattori di educazione moderna di massa, la caserma e lo stabilimento industriale). Ma non dimentichiamo che limitarsi a mettere in relazione cause ed effetti costituisce una semplificazione di fenomeni molto più complessi, in cui vi sono interazioni molteplici tra ambiente o contesto e fenomeni, o istituzioni, o processi.
E nei quali vi sono anche aspetti positivi da considerare.
E’ proprio l’aspetto sul quale stavo per arrivare: accanto alle occasioni perse, vi sono quelle colte. Pensi alla riforma agraria/fondiaria (1950) e alla sua incidenza sul sistema proprietario, alla scuola media unica (1962) e allo sviluppo del sistema scolastico, che hanno inciso sul grado di istruzione, al Servizio sanitario nazionale (1978), che ha contribuito a una delle libertà dal bisogno, al rafforzamento del sistema di protezione sociale, che nonostante le continue lamentale, ha contribuito ad assicurare un reddito nella parte finale della vita degli italiani. Per non parlare di uno sviluppo più vicino a noi…
Quale?
Non ce ne accorgiamo, ma, nonostante i molti conflitti, siamo una società più pacificata. Se mi guardo indietro e considero i molti amici a cui è stata tolta la vita con violenza, Vittorio Bachelet, Roberto Ruffilli, Massimo D’Antona, Ezio Tarantelli, o a quelli gambizzati, come Gino Giugni, e agli anni in cui molti di noi dovevano stare al chiuso, muoversi con macchine blindate, temere per strada….
Si può trarre una lezione dalla storia e che cosa insegna il libro dal quale siamo partiti?
La deluderò. Insegnano che la storia non è lineare. Che quelle che ci appaiono vicende esclusivamente nazionali riguardano invece molti paesi. Che l’azione degli individui è almeno tanto importante quanto quella delle forze collettive. Che ci portiamo appresso pesi di cui dovremmo liberarci. Che l’incostanza è uno dei nostri mali.
Basta, basta!
Ma insegnano anche che la “deprecatio temporis” non è produttiva, che dobbiamo anche ricordare i tempi buoni, le occasioni che non abbiamo perso, le condizioni di oggi rispetto a quelle di ieri.